Si è spento nella sua casa a Roma a 94 anni dopo una lunga malattia il saggista, critico letterario e giornalista Walter Pedullà. Grande il cordoglio della Rai con la quale ha operato dal 1977 al 1992 nel Consiglio di amministrazione del Servizio Pubblico, di cui è stato anche presidente dal 1992 al 1993. Nato a Siderno il 10 ottobre 1930, ha vissuto intensamente questo secolo nel nome di letteratura e politica fin dalla laurea in Lettere a Messina. Ha anche insegnato Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea a La Sapienza dal 1958 al 2005 (nei primi 8 anni come assistente di Giacomo Debenedetti, suo maestro).
Nel suo ultimo libro, 'Il pallone di stoffa. Memorie di un nonagenario''. (Rizzoli, pag. 543, Euro 22,00) con cui nel 2020 ha vinto anche il primo Premio Flaiano speciale di narrativa alla carriera e il premio letterario Carlo Levi per la Sezione narrativa, Pedullà racconta l'avvincente "partita da protagonista" che ha giocato nei suoi 90 anni di storia, con una vita costellata di eventi eccezionali, compreso il fatto di essere morto e poi risorto, una volta, quasi due.
Nato a Siderno, un piccolo paese calabrese, ha vissuto intensamente questo secolo grazie alle otto bottigliette di Coca Cola al giorno ed altrettante mele, per scandire giornate e notti nel nome della letteratura e della politica. ''Ho passato metà della vita a leggere'', scrive ma è arrivato a tanto grazie ad una massicci dose di ironia, che certo ha mutuato anche da uno dei suoi autori preferiti, Aldo Palazzeschi e dal suo Codice di Perelà. L'autoritratto che Pedullaà abbozza (nonostante le 543 pagine è solo un volo d'uccello sulle sue mille vite) in questo suo intensissimo volume, è epocale da molti punti di vista. La storia lo trascina nelle sue trasformazioni, dal paese rurale, quasi medievale, dove il padre sarto e la madre portano avanti con carattere e ambizione un nutrito gruppo di sette figli, sperando di riuscire a farli tutti laureare. Un paese dove esplode subito la passione politica, quella socialista di Walter, quella comunista del fratello Gesumino.
La fatica della giovinezza è palpabile, quasi polverosa come i chilometri da fare ogni giorni, lezioni su lezioni private e lo sforzo della retorica per un ragazzo che per timidezza non parlerebbe e invece il caso lo porta a non fare quasi altro tutto il giorno. Un ragazzo dalla proverbiale determinazione, che diventa allievo e poi assistente di Giacomo Debenedetti, per cui nutre una ammirazione senza limiti, e nella sua ascesa incontra, diventa amico, di tutti i piu' grandi intellettuali italiani, da Malerba a Sciascia, da Bonaviri (che come medico gli salva la vita) a D'Arrigo, da Pagliarani, a Volponi (sono cosi' somiglianti che li scambiano) a Borsellino. E poi gli scrittori che incontra e non resiste ad intervistare, da Gadda che gli risponde a monosillabe, a Pasolini che lo porta in macchina per la periferia romana.
Passione politica che lo promuove al ruolo di critico letterario per L'Avanti per anni, e poi dall'Università La Sapienza a Viale Mazzini, prima nel consiglio d'amministrazione per 17 anni e poi presidente della Rai e infine alla presidenza del Teatro di Roma. Passione che gli fa scatenare sentimenti forti, d'amicizia ma anche no, come per Enrico Manca o Angelo Guglielmi, che racconta di aver più volte aiutato per essere poi amaramente sconfessato nel momento del bisogno.
Del resto, lo dice anche lui, il suo è mestiere di stroncatore, e allora descrive Berlusconi come un barzellettiere furbetto e mentitore, Veltroni che passa sopra a Vittorio Gassman per la nomina di Martone alla direzione del Teatro di Roma, Cesare Garboli legato a interessi poco letterari e su Craxi sorvola.
''Soltanto chi arriverà alla fine saprà se ha vissuto una vita tragica o comica. Se la conclusione sembra ridicola, ridiamone'' scrive.
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