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«Il Filadelfia era un tempio, entrando sentivi i brividi. Respiravi leggenda, dolore e speranza. Lì dentro si diventava uomini». Aldo Agroppi, scomparso ieri a ottant’anni, aveva tagliato da un pezzo con il calcio in cui aveva vissuto tre vite - calciatore, allenatore, opinionista -, confessava di non riconoscersi né divertirsi più, s’era rifugiato nei ricordi e il Toro era il più bello.
Lo ha accarezzato fino all’ultimo alito di un’esistenza bella e fragile, intensa e ribelle, spesa a combattere «servi e ruffiani», dorata dal successo e annerita dalla depressione. Antijuventino dichiarato, da ragazzino simpatizzava in realtà per i bianconeri e nelle partitelle all’oratorio di Piombino portava i calzettoni alle caviglie come Sivori: raccontava d’aver cambiato idea crescendo nelle giovanili granata, reazione alla sudditanza che notava verso un club grande e potente.
Lui i potenti non li amava, non s’è mai chinato a imposizioni e nemmeno a consigli, e c’è chi giura che sull’esonero a Como abbia inciso lo spazio negato a Borghi, pupillo di Berlusconi arrivato in prestito dal Milan, nonostante le sollecitazioni del Cavaliere. «Il tempo mi ha dato ragione, magra consolazione - raccontava -. Anche Sacchi lo bocciò, e ha avuto sorte diversa: sono inferiore a lui come allenatore, ma non sono certo più fesso».
A Torino arrivò per caso, quando il papà Ferdinando incrociò il dirigente granata Alberto Lievore in una farmacia e gli chiese di dare un’occhiata al suo Aldo, già titolare in Serie D. Partì con altri ragazzi, non tornò indietro: quindicimila lire al mese, vitto e alloggio, le giovanili e poi i prestiti, le illusioni e le tribune, la svolta con Fabbri nell’estate 1967.
Quando capì di dover traslocare ancora, complice l’ingaggio di Corni, raggiunse l’hotel Gallia a Milano, cuore del calciomercato, e chiese all’allenatore d’essere messo alla prova, pronto a mettersi da parte a novembre se non fosse stato giudicato all’altezza. Il tecnico rimase colpito dal garbo che non intaccava la determinazione, chiese al segretario di convocarlo e anche di preparare il contratto.
Debuttò in Serie A il 15 ottobre contro la Samp, il Toro si impose 4-2 ma fu una vittoria maledetta: Merighi, che abitava nello stesso palazzo, bussò nella notte in lacrime alla sua porta per dirgli che era morto Meroni.
Renzo Ulivieri ricorda Aldo Agroppi: "Io ero di terra, Lippi di sabbia, lui di scoglio"
Fu la prima di 275 partite distribuite in otto stagioni, impreziosite da due Coppe Italia, scandite da 19 gol di cui uno indimenticabile nel derby, vittoria per 2-1 in rimonta, fissato in una gigantografia nella casa di Piombino tappezzata da migliaia di dischi in vinile, culla e poi buen ritiro, riferimento negli anni nomadi del pallone e ultima immagine della finestra d’ospedale dove si è spento per una polmonite. Non bastò per strappare lo scudetto alla Juve, anche perché un altro gol, alla Samp, che avrebbe forse riscritto la storia, gli fu annullato: fu Lippi, ironia della sorte, a respinge il pallone, per Agroppi oltre la linea.
La favola granata ebbe un finale amaro, un benservito senza spiegazioni: via lui, Cereser e Fossati proprio alla vigilia dello scudetto, con il tempo ha compreso la scelta ma non ha mai accettato i modi, per lui il Toro era tutto e ha continuato a esserlo, il legame con la maglia e la gente è rimasto unico.
Scelse Perugia, dove chiuse la carriera a centrocampo e iniziò quella in panchina svezzando giovani, poi decise di fare il salto e superò l’esame a Coverciano, ultimo del corso ma non per demerito: si scontrò, narrano, con Italo Allodi ch’era presidente della commissione, riaffiorarono vecchie scorie d’un derby infinito, perché Aldo l’aveva più volte attaccato quand’era direttore generale della Juve.
Comincià a Pescara, poi allenò il Pisa, il Perugia, il Padova e ancora il Perugia, sempre in Serie B: in A s’affacciò nel 1985 con la Fiorentina, arrivò quarto ma finì nel mirino degli ultras che l’accusavano di non rispettare Antognoni. L’aggredirono anche, una volta, e a difenderlo intervenne Passarella.
Il bello è che con Antognoni non c’erano stati mai dissapori, con l’argentino sì, ma tra uomini di calcio, personalità forti, tutto era scivolato via senza rancori. Seguirono l’esonero a Como e la retrocessione con l’Ascoli, poi dopo una lunga pausa, il ritorno tormentato a Firenze: prese il posto di Radice, l’allenatore che l’aveva cacciato dal Toro, rotolò in classifica, lasciò dopo quattro mesi a Chiarugi che non riuscì a impedire la caduta in B.
Smise, altro gioco del destino, dopo una sconfitta per 3-0 contro la Juve, ma qualcosa s’era rotto, aveva capito - parole sue - di non essere più un allenatore, il problema non erano i risultati ma l’ansia che lo divorava, la depressione che scavava dentro: la chiamava il tumore dell’anima ed è stato uno dei primi a confessarla pubblicamente.
La terza vita è stata da opinionista, dissacrante e graffiante perché lui, toscanaccio, era così: «Non resisto quando il discorso si fa scontato, banale. Amo la trasparenza, non sono servo di nessuno e questo per molti è insopportabile. La mia lingua è una belva difficile da ingabbiare». Autoritratto d’un hombre vertical, spigoloso ma in fondo romantico, che lascia in eredità il sogno di stadi pieni di bambini e allegria e un piccolo, grande ammonimento: «Ricordate che il calcio è una cosa seria».