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Alessandro Baricco e i 50 anni di Tuttolibri: “C’è qualcosa di festivo oggi nell’aria”

4 giorni fa 2
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«Benché non ricordi affatto quel giorno, l’uscita di Tuttolibri aveva qualcosa di festivo», dice Alessandro Baricco a proposito del primo novembre 1975, quando il settimanale letterario che oggi entra nel suo cinquantesimo anno di vita aveva appena un giorno. «Credo che io come molti altri avessimo allora un’idea di intensità che il mondo non ricompensava. Il mondo era avaro, tanto che per trovare intensità molti si erano dati alla lotta armata. Ecco, queste cose – Tuttolibri, ma poco dopo anche Repubblicaerano degli squarci in cui un mondo molto cupo e immobile ricominciava a vibrare. Per la mia generazione, per il tipo di pensieri che avevamo in testa, Tuttolibri, prima ancora di essere una cosa culturale, alta, c’entrava col desiderio». Arrigo Levi, il direttore della Stampa che aveva avuto l’idea di Tuttolibri, nel suo editoriale di presentazione aveva scritto qualcosa di simile: «Questo Paese è attraversato da inquietudini profonde. È scontento di sé, agitato da tensioni e da aspri conflitti. Ma è anche un Paese più colto, e più adulto, che s’interroga appassionatamente su se stesso, che si giudica spesso impietosamente, ma che vuol trovare strade nuove».

Alessandro Baricco non aveva ancora diciotto anni, e in questa conversazione sui libri, va con la memoria alla sua camera di ragazzo: «Avevo una libreria, me l’ero fatta regalare, avrò avuto 50 libri, e il fatto che ci fosse una specie di Luna Park dei libri – perché Tuttolibri mi sembrava quella roba lì – era come aver trovato dei complici a una festa che fino a quel momento mi ero fatto a casa, da solo». Rispetto alle riviste letterarie che andavano allora, Tuttolibri ogni settimana pubblicava la classifica dei libri più venduti, una cosa inusuale: «Me la ricordo questa cosa della classifica, che per uno come me era gioia pura. Finalmente una classifica, sembrava la fine di quel mondo sovietico, con gli elzeviri in cui non si capiva niente. E la prima volta che finii nella classifica di Tuttolibri mi ricordo che l’appesi sulla famosa libreria. Era Castelli di rabbia, ero tipo in quinta posizione, e non era affatto male per essere un libro che il mio editore aveva detto “Va bene, lo pubblichiamo anche se è un romanzo sperimentale che non leggerà nessuno”».

E poi c’erano le recensioni, che nei primi numeri, tra note e schede arrivavano a segnalare fino a 300 titoli (i libri che uscivano erano 17 mila l’anno, contro gli 85 mila di oggi). Ma che significava allora recensire un libro rispetto a quello che significa oggi? «Tuttolibri alludeva a una società letteraria in cui esistevano dei critici militanti, che facevano il mestiere dei critici, oggi è diverso, ci sono molti scrittori che fanno recensioni ad esempio, però il fatto che esistano ancora le recensioni dei libri è un fenomeno curioso, che è sopravvissuto a molte cose. Sono uscite per lo più dal quotidiano e sono finite nei supplementi, una sorta di parco naturale dove moltissimi non arrivano, però ci sono». E ogni tanto, ancora, qualcuno si risente. «Significa che è un mondo vivo, che salta su col nervo quando colpisci giusto. A me è successo di contrastare alcuni atteggiamenti dei critici, non una recensione specifica, ma l’ho sempre ritenuta una forma di vitalità». Sempre meglio che leggere alcune cose «in cui non si capisce se il libro è bello o brutto». E a proposito di stroncature, Baricco racconta di quella volta in cui se la prese con Pietro Citati e Giulio Ferroni: «La stroncatura di per sé non mi piace, anche se io ho scritto cose durissime su tante cose, musica, libri, istituzioni, sono stato molto sarcastico, violento, è un esercizio di intelligenza. Ma quando capisci che è frutto di una stanchezza, di una pigrizia, di un modo di indulgere su degli schemi, allora no. A Citati e Ferroni dava fastidio che facessi una cosa che era troppo pop per loro, ma troppo colta per essere pop: andavano in blocco come le caldaie e reagivano con arroganza». Poi il Baricco delle polemiche lascia il posto al Baricco di oggi, che sta superando la malattia, che porta il cappello, che ogni tanto lancia gli occhi in alto perché un po’ si stufa ma i libri gli piacciono, e vuole parlarne ancora un po’: «Le critiche feriscono sempre e i complimenti annoiano, va così, è una delle cose che vorrei spiegare a mio figlio, siamo fatti così».

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In un paese di gente che legge poco, tra le domande ad alta voce c’è quella sul senso di un settimanale letterario oggi: ce la fa a orientare il mercato, a incidere sulle politiche editoriali? «Diciamo che il mercato è il risultato di una serie di correnti – dice – Quando ho iniziato a pubblicare c’erano forse un paio di correnti, ora ce ne saranno dieci, dodici, è tutto più complesso. E diciamo che la corrente che veniva dall’inerzia di una certa élite era una delle correnti principali, oggi no, ma continua a esserci. Perché i supplementi letterari di oggi massaggiano una certa élite letteraria, la nutrono, la tengono in forma e l’élite dice ancora la sua, non è mica vero che TikTok si sbrana tutto. Non ha forse la centralità che aveva un tempo, ma resta ancora importante». Poi ci sono le persone: «Sono molto pochi quelli che capiscono di libri e di mercato, ce ne sono alcuni che non capiscono né di libri né di mercato, alla fine è come nel giornalismo, o nel football, ci sono dei fuoriclasse, c’è gente che vivacchia, non è un mondo peggiore o migliore degli altri». Fuoriclasse? «Beh so che è molto detestato ma Repetti (Paolo, direttore editoriale Einaudi Stile Libero, ndr.) è uno che capisce di libri e di mercato. O se vogliamo, in una versione più politicamente corretta, direi Gianluca Foglia, direttore editoriale di Feltrinelli, uno con cui è bello parlare di libri ma capisce di mercato».

E Baricco il mercato lo capisce? «Non tanto. I successi dei miei allievi mi sorprendono, gli insuccessi dei miei allievi mi sorprendono. Io non ce l’ho quel talento lì, non ce l’ho avuto nemmeno su di me. Ho scritto Seta chiedendo scusa all’editore perché avevo firmato un contratto abbastanza ricco e poi ho consegnato ‘sto libretto e ho detto: “Mi spiace, prometto che quello dopo sarà un libro veramente figo”. E quello dopo era City, cioè il libro che ha venduto di meno di tutti quelli che ho scritto. Posso capire qual è un bel libro, ma difficilmente capisco se funzionerà».

Baricco si racconta dopo la malattia: "Il segreto della felicità è lasciar andare le cose"

Così come non è per niente convinto che il luogo comune secondo cui si scrivono troppi libri sia vero: «No, a me piace la scrittura, vado matto per la scrittura. E vado matto anche per il football. E se qualcuno mi chiedesse: ma non si giocano troppe partite di football? Io direi ma no, più ne giochi meglio è». Forse allora sono troppo pochi i lettori: come le partite anche i libri hanno bisogno di pubblico. «Ma no - ed eccolo il Baricco più bello - perché quando si gioca al campetto di martedì sera non c’è pubblico, si gela, le mogli non ci sono, ma si gioca lo stesso».

Impossibile sottrarsi al momento questionario-di-Proust. Libri amatissimi? «Ci sono le stagioni: ho avuto una fase in cui Joseph Roth per me era tutto, oggi lo apro un po’ così». Libri che ci si è raccontati di aver letto e invece no? «Guerra e Pace; l’Ulisse non me lo sono neanche mai raccontato, so che non l’ho letto; Vita e Destino, di cui tra l’altro parlo: del libro, di Grossmann, ma non l’ho mai finito. E non so neanche come finisce Il Maestro e Margherita, uno dei libri che meno sopporto, noioso da morire». Prima o poi lo leggo? «Il metà Faulkner che non ho letto, sta lì, mi guarda, e so che prima o poi ci arrivo». Riletture? «Come tutti quelli che insegnano sono costretto a rileggere, ma di rado ho riletto per puro piacere. Però ci sono dei testi su cui alla trentesima volta che ci ritorno ancora scopro qualcosa: Hemingway, Cechov».

Sui grandi temi, tipo la scrittura di genere, il rischio è sempre quello della generalizzazione e Baricco si sottrae volentieri. Però poi ci pensa un secondo, e se è vero che nel giudizio delle scritture si sente gender blind, ammette che di recente qualcosa lo ha colpito. «Mi devo sforzare per farci caso. A scuola non vedo differenze, posso arrivare a dire che ci sono libri più maschili e libri più femminili: Oltre il confine di McCarthy è un libro più maschile della media, cosi come Gita al faro è più femminile della media, ma posso concedere questo: che le donne hanno più grinta attualmente, quando scrivono. Un esempio è Sally Rooney, ha scritto un libro con una cazzimma... forse il fatto di sentire di venire da un lungo tempo di emarginazione... non so, quello che scrivono le donne mi sembra che abbia più forza. Mordono, diciamo così».

Alla fine della conversazione, dopo aver fatto il giro largo – e il desiderio, e la vivacità, e il campetto del martedì – lo ammettiamo: il libro ha perso centralità, «e questo se vogliamo è anche rasserenante, non è più al centro del gioco». Volendo rintracciare il momento: «Fino agli anni Sessanta, Settanta, forse fino al Nome della Rosa, si poteva dire che il libro era al centro del campo. Oggi non lo è più se non saltuariamente, fatta eccezione per libri che poi diventano serie». Ma non è una resa: «Ci siamo spostati dal centro, ma non si può dire “siamo ai margini”. Come in tutte le cose, si è spalancato il campo da gioco. Quando ho iniziato negli anni Novanta il mio competitor era un altro scrittore e il cinema, la gente aveva quell’ora in più. Oggi i competitor di uno che scrive libri sono tantissimi e molto forti: Netflix, i social. Chi dopo aver visto una serie si mette poi a leggere un libro? Oggi è diventato uno sport più duro, non è difficile praticarlo, ma riuscire a fare i tornei che contano. Flaubert non aveva poi tutta questa concorrenza».

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