ARTICLE AD BOX
ROMA. Una rete di una decina di super ospedali di riferimento nazionale, collocati anche al Sud, finanziati con fondi ad hoc per assumere e acquistare apparecchiature di avanguardia in modo da porre anche un freno alla migrazione sanitaria verso Nord. Alla riforma stanno lavorando già da un po’ i tecnici del ministero della Salute, con l’obiettivo di sfornare a marzo un decreto per la creazione di poli d’eccellenza in tutta Italia, senza dimenticare gli ospedali che più giù di Roma non sembrano oggi attrarre pazienti, nonostante non manchino eccellenze.
Mattarella sulla sanità: "Lunghe liste d'attesa, molte persone senza mezzi rinunciano a curarsi"
Basti vedere la Top 10 dei nosocomi che accolgono più pazienti da altre regioni per cure complesse, dove al di sotto del Lazio non compare alcuna struttura, mentre la Lombardia piazza in cima al podio il “Galeazzi” di Milano e ai due gradini più bassi l’“Humanitas” di Rozzano e l’Irccs “San Raffaele”, sempre a Milano. Del resto solo lo scorso anno il valore dei ricoveri da fuori regione, documenta l’Agenas, ha sfiorato i 3 miliardi di euro, con Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto ad attrarre più migranti della salute. La riforma non servirà però solo a fermare la mobilità sanitaria, ma nello stesso tempo dovrà potenziare anche la rete di assistenza ospedaliera, creando dei grandi hub che siano punti di riferimento per gli altri nosocomi, che a questi si rivolgerebbero per risolvere i casi più complessi.
La patente di “ospedali nazionali di riferimento” si tradurrebbe nell’acquisizione di uno status speciale, con finanziamenti garantiti dallo Stato centrale e non più solo dalle regioni, con la possibilità, anche per le amministrazioni in piano di rientro dal deficit, di agire più liberamente su assunzioni e acquisto di tecnologie avanzate. Lo scopo è garantire un livello top di cure nei campi più importanti, come quelli della cardiochirurgia, della neurochirurgia o dell’oncologia pediatrica. Una rete che oltre agli ospedali pubblici ricomprenderebbe anche quelli privati convenzionati.
La lista dei super ospedali deve ancora essere stilata, ma dei nomi si fanno già. Come la “Casa del Sollievo” e il Policlinico di Bari in Puglia e il “Federico II” di Napoli, per restare al Sud. Mentre a Roma candidati sono i policlinici Gemelli e Umberto I. Sempre al centro ha buone chance l’azienda ospedaliera universitaria di Pisa. Mentre al Nord si sarebbero i tre ospedali milanesi già sul podio per la loro attrattività, più il policlinico Sant’Orsola a Bologna e l’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona.
«Stiamo elaborando un testo collegato per il potenziamento e l'integrazione dell'assistenza ospedaliera e territoriale, che interviene in diversi ambiti, tra i quali aggiornare la classificazione delle strutture ospedaliere, anche alla luce dell’avvenuta attivazione degli ospedali di comunità, identificando ospedali di riferimento nazionale», conferma il ministro della Salute, Orazio Schillaci.
II decreto oltre a creare la rete degli ospedali di riferimento punterà poi a promuovere nuovi standard per il funzionamento delle reti cliniche di patologie di livello regionale, ma anche a definire reti nazionali di patologia e le reti nazionali tra strutture di eccellenza per specifici ambiti. Le note dolenti, come sempre, arrivano quando si parla di come finanziare il tutto, visto che da dieci anni la spesa per investimenti in conto capitale è ferma causa carenza cronica di risorse, tanto che rispetto a quelli privati siamo oramai penultimi in Europa, sopravanzati solo dalla piccola Irlanda. Così alla fine resta quel 40% di fondi ancora non utilizzati dei 24 miliardi di lire stanziati per l’edilizia sanitaria dalla lontana legge finanziaria dei 1988. Soldi non spesi, secondo la Corte dei Conti, per via di procedure farraginose e dell’incapacità da parte delle amministrazioni locali di realizzare progetti, con Lazio e Campania che «non hanno utilizzato circa il 68% delle risorse disponibili», pari rispettivamente a 1,1 miliardi e a 563 milioni. Una incapacità progettuale che ci fa perdere anche decine di miliardi di cofinanziamenti europei. Così i nostri ospedali restano vecchi fuori e anche dentro. Perché la maggior parte di loro è stata costruita prima della guerra e quasi uno su dieci ha visto passare persino le truppe napoleoniche. Mentre le apparecchiature per gli accertamenti sanitari basilari non tengono il passo con l’innovazione tecnologica, visto che quasi la metà di tac e risonanze è da ritenersi obsoleta. Il che significa parecchi “fermo macchine” in corso d’anno che contribuiscono non poco ad allungare le liste di attesa.
I magistrati contabili hanno stimato in una relazione pre-pandemia in almeno 13 miliardi lo stanziamento necessario per rendere sicure le nostre strutture ospedaliere. Ora per i nostri nosocomi arrivano 1,6 miliardi messi sul piatto dal Pnrr per la loro messa in sicurezza, dato che secondo un ultimo report della Protezione civile il 60% rischia di venirsene giù con una scossa di terremoto, nemmeno troppo violenta. Un altro miliardo e 450 milioni lo stanzia invece il Fondo nazionale per gli investimenti complementari.