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Nelle prime pagine di Monaco guerriero, il suo primo libro uscito il mese scorso per Mondadori (decisamente un brutto libro, mi scuso se lo penso e lo dico pure, in fondo mi scuso senza pentimento), Massimo Pericolo, stupendo rapper e anche trapper, scrive: «La musica la annovero tra i piaceri. Non è così importante come pensiamo. Può essere un supporto emotivo nei momenti difficili ma è sopravvalutata, non serve ad affrontare la vita. Con la musica non si cambia il mondo. È molto più importante studiare: la filosofia, la scienza sono cose che hanno un impatto sulla realtà. La musica è un passatempo. Sei il rap potesse influenzare il mondo in bene, allora potrebbe farlo anche in male. E avrebbero ragione i tg».
È una posizione onesta e lucida, ma pure disarmante, e impoverente. La musica non cambia il mondo perché non ferma le guerre, gli assassini, gli imbecilli, però la musica ferma le persone e le emoziona, e le emozioni incidono su come le persone agiscono, amano, pensano, reagiscono. Da questo deriva una responsabilità tanto eccessiva da risultare inibitoria? Peccato. Peccato perché, in fondo, quel potere di emozionare e quindi incidere nella vita degli altri lo abbiamo tutti, e se ci pensassimo un po’ di più, forse, tante culture non avrebbero poi bisogno di venire formulate e reclamate, talvolta imposte (woke culture, cancel culture, politicamente corretto, e tutti gli affini strumenti di ripensamento del discorso pubblico e dei codici di comunicazione e relazione che stiamo provando a darci).
Pericolo parla anche di un eccessivo romanticismo nella visione che abbiamo dell’artista e forse ha ragione: il caso Tony Effe lo dimostra. Pecchiamo di romanticismo quando non riusciamo a scollegare un musicista da quello che canta, perché ci piace immaginare che chi sale su un palco assomigli a quello che canta, o almeno ci creda. Altrimenti, perché lo canta? È per divertirsi e provare piacere che Tony Effe canta «Metti un guinzaglio alla tua ragazza/ Ci vede e si comporta come una troia»?
Alle molte artiste e ai molti artisti che lo hanno difeso, e lo hanno fatto per tutelare un principio, e cioè la libertà di espressione e quella artistica, è persino paternalista spiegare che un’amministrazione pubblica non può usare i soldi di tutti per pagare un artista che canta di troie da defenestrare, ma forse si può far loro notare che la libertà espressiva di Tony Effe è talmente al sicuro che il suo concerto al Palaeur lo farà lo stesso, guadagnandoci di più (il guadagno spregiudicato conta, nella cultura rap di cui veniamo accusati di non capire niente, o forse si può cominciare a dire che non tutte le nefandezze di certuni signori dai cognomi contumaci sia “essenza” del rap?).
Quello che però spero non sia paternalista è chiedere agli artisti e soprattutto alle artiste che difendono il fare musica per dire che «Lei la comando con un joystick. Non mi piace quando parla troppo», è: da che parte state, nella battaglia che stiamo provando a fare tutte e tutti, per smantellare comportamenti violenti e svilenti verso le donne? Davvero un musicista non deve mai e poi mai pensare a chi ferisce e condiziona quando parla e canta? Siete o no importanti nelle emozioni e quindi nelle vite di tutti? Dobbiamo prendervi sul serio oppure no? Volete entrare nella stanza degli adulti o no? In quella stanza, da tempo è in atto un ripensamento di linguaggio, storie, miti e riferimenti in favore di nuovi modelli che ci rendano più liberi, persino migliori: è solo bigottismo, per voi?
Raiz degli Almamegretta (che a fare il rap in Italia sono stati tra i primi, anni fa) ha detto, alcuni giorni fa in radio, che non tutto il rap italiano è davvero rap: talvolta, è niente. Lo diceva senza nascondere imbarazzo. Roberto Saviano, alcune settimane fa, ha detto che il rap rappresenta il brutto e ci fa dire: bello. Ed è questa la sua grandezza. L’ultimo disco di Marracash mi sembra lo faccia, e bene.
Sarebbe stupendo ascoltare più spesso un disco che sia mosso dal desiderio di far bene a chi ascolta, penso che all’umanità servirebbe, ogni tanto, un Lucio Dalla in più. E se questo è moralismo censorio mi scuso, di nuovo, senza pentimento.
In fondo, spero sempre che abbiano ragione i tg.