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Gerusalemme (iStock). Nel riquadro, la copertina del libro di Bruno Dardani.

In un panorama editoriale spesso affollato da semplificazioni e narrazioni polarizzate, Bruno Dardani offre un volume che si propone come esercizio di equilibrio. «Noi, che la morte l’abbiamo già uccisa», è un manifesto personale, frutto di un esperienza umana e lavorativa di oltre vent’anni come inviato del Sole 24 Ore, e insieme un viaggio nell’anima di un popolo che ha trasformato la sofferenza in riscatto e il passato in una lezione eterna.

Dardani, pur muovendosi su un terreno scivoloso, riesce a esplorare senza retorica i nodi storici, culturali e politici che legano Israele al resto del mondo, anche grazie allo stile piano tipico del reportage giornalistico, che - lo abbiamo appreso da Indro Montanelli e da Oriana Fallaci - è un genere letterario a tutti gli effetti. A questo si mescola la riflessione intima, di un autore che sfida stereotipi e pregiudizi senza fare apologia o scadere nella propaganda. Il risultato è un’opera che invita alla comprensione, pur non nascondendo le difficoltà intrinseche della realtà israeliana.

Tant’è che sin dalle prime pagine, il lettore è trascinato nella dimensione autobiografica di Dardani, che racconta il suo legame con Israele attraverso episodi emblematici della sua vita: basta una traversata nel deserto del Negev per evocare le suggestioni più profonde: «Ma è il colore di quel deserto, che da un lato del Giordano è il Negev, dall’altro il Wadi Rum, l’incudine del sole, a provocarmi quel disagio, quella sensazione di incompletezza che solo i contrasti producono. Da un lato, la sabbia e le rocce rosse del deserto abbacinato dalla luce; dall’altro, il grigio e la pioggia sporca di Mauthausen. In mezzo un bambino con le gote infossate e quegli occhi che si perdono dentro la profondità del dolore».

La narrazione oscilla tra il personale e il collettivo: un prisma, attraverso cui osservare il destino di una nazione giovane ma profondamente radicata nella storia. Ed emerge l’immagine di un popolo che vive con un’intensità unica, che celebra la vita, pur portando il peso di una memoria tragica e ineludibile. «L’chaim, in ebraico “alla vita”, non è solo un brindisi comparabile ai nostri “prosit” o “cin-cin”; è un messaggio lanciato nel cielo a difesa della famiglia, degli amici, di questo Paese unico e irripetibile», si legge.

A fare la differenza è la capacità di affrontare con lucidità le grandi questioni storiche e politiche legate a Israele. «Israele non è il Paese perfetto», dichiara Dardani nell’incipit del nono capitolo. Questo lo sa; ma analizza la narrativa che circonda la fondazione dello Stato, sottolineando come molte delle accuse mosse contro il sionismo siano costruzioni storiche distorte. E smonta alcuni dei miti più radicati nel discorso pubblico, come quello secondo cui gli ebrei avrebbero «rubato» la terra palestinese. Documenti, evidenze storiche e testimonianze alla mano, lo scrittore ricorda come molte delle terre su cui sorse Israele furono acquistate legalmente dagli israeliti europei presso latifondisti arabi e turchi. Al tempo stesso, non si omette di evidenziare le sofferenze provocate dai conflitti successivi, sottolineando come il dolore e la perdita siano esperienze condivise da entrambe le parti.

Il titolo del libro, «Noi, che la morte l’abbiamo già uccisa», riflette l’anima dell’opera. Non si tratta di un’iperbole, ma di un’espressione che Dardani attribuisce agli israeliani che hanno vissuto la Shoah e le guerre successive. È l’essenza di un popolo che, pur segnato da cicatrici profonde, ha scelto di guardare avanti. «Chi ha vissuto ed è sopravvissuto ai campi di sterminio “la morte l’ha già uccisa”».

«Noi, che la morte l’abbiamo già uccisa» è un libro che sfida il lettore a riflettere senza pregiudizi, senza dogmi, senza cecità di fronte alla complessità della ragione.

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