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TEL AVIV. Da quando è stata liberata Aviva Siegel ha fatto della testimonianza la sua missione. Tornata in Israele a fine novembre dopo 53 giorni di prigionia ha giurato a se stessa e alla sua famiglia che non avrebbe per un secondo smesso di lottare per riavere indietro suo marito Keith, rapito con lei da Hamas il 7 ottobre, ma ancora nella Striscia di Gaza. Nessuno sa se vivo o morto.
Il giorno in cui La Stampa la incontra, a Tel Aviv, nella casa di sua figlia trasformata in uno dei quartier generali del Forum dei parenti degli ostaggi, Aviva indossa una delle magliette che ha sempre con sé. Sulla schiena la scritta “Bring Them Home Now”, riportateli a casa adesso, e davanti il volto di suo marito Keith.
Non era un giorno qualsiasi ma il novantaseiesimo compleanno della madre di lui, malata da tempo: «Sono certa che lui è lì, in una cella a pensare a lei».
Una anziana madre che pensa a un figlio rapito e lui, Keith, che non sa che il suo di figlio, Shai, è sopravvissuto. Quando lui e Aviva sono stati portati via da Kfar Aza hanno perso le comunicazioni con il loro ragazzo. Per sette settimane Aviva ha temuto che fosse stato ucciso da Hamas. Ha scoperto solo dopo la liberazione che era vivo a l’aspettava a casa. «Quando mi hanno detto che era sopravvissuto ho sentito un pezzo di me che tornava a vivere, non riesco a darmi pace che Keith sia là dentro pensando che sia morto».
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Aviva è nata in Sudafrica e emigrata da bambina in Israele, Keith è cresciuto negli Stati Uniti, in Carolina del Nord. Si sono conosciuti negli anni 80, da giovanissimi, quando erano volontari nel kibbutz al centro di Israele fondato dal fratello di Keith.
Dopo il matrimonio si sono trasferiti a Kfar Aza e hanno vissuto lì per quarant'anni con quattro figli prima e cinque nipoti poi, lei insegnante d’asilo, lui rappresentante di prodotti farmaceutici.
Poi il 7 ottobre ha distrutto tutto. La sicurezza, il kibbutz, le loro vite.
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Mentre venivano trascinati a Gaza Keith è stato colpito alla mano e gli sono state fratturate le costole.
Quando comincia a parlare delle settimane di prigionia Aviva è un fiume in piena, ricorda ogni dettaglio, ogni passaggio. Va avanti, torna indietro, aggiunge particolari.
«Siamo stati trasferiti 13 volte, sia nei tunnel che in abitazioni. Uno dei tunnel era profondo quaranta metri, un’altra stanza in cui ci hanno trattenuto era buia, senza una coperta, senza acqua, senza luce. Mancava l’aria, era tutto insopportabile. Ho pensato che saremmo morti lì».
Aviva dice di aver sofferto la fame e la sete mentre i suoi rapitori li privavano di acqua e di cibo ma mangiavano di fronte a loro.
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Hanno umiliato suo marito spogliandolo e rasandogli tutto il corpo e impedivano loro qualsiasi contatto. In presenza dei rapitori non potevano né toccarsi, per sostenersi con un abbraccio e una stretta di mano, né parlare. Per questo, quando riusciva, Aviva si metteva una mano di fronte al volto per poter piangere un po’.
«Un giorno una giovane ragazza, rapita anche lei da Kfar Aza, è uscita dalla stanza per andare in bagno. Quando è tornata ho avvertito che qualcosa non andasse, mi sono avvicinata e lei mi ha solo detto: mi ha toccata. Non so cosa altro sia avvenuto mentre era assente, ma so che non ho potuto sostenerla perché non ci era permesso rivolgerci la parola».
Avrebbe voluto urlare e non l’ha fatto. Avrebbe voluto stringerla e non l’ha fatto.
L’unica volta che ha disobbedito alle regole è stato il giorno in cui i miliziani le hanno comunicato che sarebbe stata rilasciata senza suo marito. Aviva ha cominciato a gridare che senza Keith non se ne sarebbe mai andata, i rapitori cercavano di trascinarla via, lei si è divincolata è andata verso suo marito e lo ha abbracciato mentre lui le diceva «sarò forte per te e tu devi essere forte per me».
Lo era stato per tutta la prigionia, quando la sera le chiedeva di raccontargli almeno un pensiero positivo.
L’ultima traccia di vita che hanno di Keith è di aprile, quando Hamas ha diffuso un video che lo mostrava in vita mentre diceva: «Voglio dire alla mia famiglia che vi amo molto. Per me è importante che sappiate che sto bene, e spero davvero che lo stiate anche voi». Poi scoppia a piangere.
Quando sono stati rapiti Aviva voleva che lui dicesse di essere cittadino americano. Ma lui non l’ha fatto, perché temeva che lo avrebbero liberato con più facilità e lei sarebbe rimasta sola. È uno dei pensieri che gravano su di lei dal giorno del rilascio.
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In sette settimane Aviva ha perso dieci chili. Oggi i suoi figli e sua sorella che sono sempre con lei faticano a ritrovare la madre e la sorella di prima.
«Il nostro Paese deve pagare qualsiasi prezzo, anche finire la guerra, per liberare Keith e tutti gli altri ostaggi ancora nella Striscia di Gaza. Dobbiamo trovare un accordo subito, riportarli tutti indietro e i leader internazionali devono aiutarci a fare pressione su Netanyahu».
Aviva non vuole sentire parlare di vittoria finale. Era contro la guerra e resta contro la guerra: «Voglio che i civili innocenti di Gaza stiano bene e voglio che la mia famiglia e la mia gente stiano bene e che possiamo vivere insieme e in pace».