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Buon compleanno, Italia? La ricorrenza “dimenticata”

7 mesi fa 38
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TORINO. 17 marzo, compleanno dell’Italia. Pochi lo sanno, ancora meno sono quelli che lo commemorano. Eppure l’Italia è nata il 17 marzo 1861, con la promulgazione della legge n. 4671, approvata poco prima dal Senato (26 febbraio) e dalla Camera (14 marzo): l’articolo 1 sancisce che «Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia». Dimenticanza di un popolo smemorato oppure rimozione voluta? La risposta è nella storia.

L’unificazione dell’Italia nasce da una combinazione di guerra regia e di spinta democratica, ma la costruzione della nazione è un processo centralizzato di “piemontesizzazione”, con le leggi, le strutture, la classe dirigente del vecchio regno di Sardegna estese a tutta la penisola. La consacrazione di Vittorio Emanuele II ne è il simbolo: siamo l’unico Paese al mondo nel quale il “primo” re è già “secondo”. Il mantenimento della numerazione dinastica sabauda è la visualizzazione della continuità tra il vecchio Piemonte e la nuova Italia.

Non è questa la sede per indagare ragioni e responsabilità di un processo storico che ha scelto la strada della centralizzazione statale ed escluso le ipotesi federaliste. Ciò che interessa è ricordare come contro il nuovo Stato si sia presto diffusa una protesta popolare, liquidata dalla storiografia liberale come “brigantaggio meridionale”, in realtà rivolta sociale estesa a tutte le nuove province del Mezzogiorno.

Dal 1861 al 1865 due terzi del Regio Esercito vengono impiegati nella repressione delle rivolte del Sud, talvolta con metodi di stampo coloniale e con un prezzo di vite umane superiore a quello delle tre guerre di Indipendenza assommate. In questo contesto il 17 marzo risulta una data divisiva, la cui commemorazione resta un evento ufficiale interno alla classe dirigente senza trasformarsi in una data di identificazione collettiva.

Non a caso nel Cuore di De Amicis, fotografia dell’educazione civica dell’Italia liberale, il 17 marzo non compare: il diario di Enrico Bottini dedica una lunga pagina al 14 marzo, in cui si parla della distribuzione dei premi ai bambini delle scuole senza nessun riferimento al suo carattere commemorativo.

Per una celebrazione partecipata della data bisognerà aspettare il cinquantenario del 1911, poi il centenario del 1961, poi ancora i 150 anni del 2011. Solo nel 2012, con la legge n. 222, il 17 marzo viene istituito come “Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera”: un riconoscimento inefficace, perché non può imporre ope legis una memoria che non c’è.

Nessun compleanno, dunque, ma anche nessun riferimento alternativo: l’Italia è un Paese senza date riconosciute, il che è insieme causa e riflesso di un’identità nazionale fragile. Dopo la Grande Guerra si è celebrato il 4 novembre, quando «i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le vallate che avevano disceso con orgogliosa sicurezza» (come recitava il Bollettino della Vittoria).

Le esasperazioni retoriche del fascismo e gli esiti drammatici della sua cultura militarista hanno però stravolto il significato del 4 novembre, sovrapponendolo a una stagione che dopo il 1945 si voleva dimenticare e riducendolo progressivamente a un appuntamento reducistico di cavalieri di Vittorio Veneto: nel 1977 è stata infatti abolita come giornata di festa nazionale. La liturgia di regime (dal 28 ottobre al Natale di Roma) è durata il tempo del Ventennio, per essere poi spazzata via dalla storia.

L’Italia democratica e repubblicana ha istituito la festa del 25 aprile, il cui significato morale, profondo e nazionale, si è però scontrato con il limite di una lotta di liberazione che non è stata “guerra di popolo”, né per numero di combattenti, né per coinvolgimento geografico: da qui forzature e polemiche perché, come ha scritto Rosario Romeo, «la Resistenza, opera di pochi, è stata usata dalla maggioranza degli Italiani per non fare i conti con il proprio passato».

Una data nazionale poteva essere il 2 giugno, ma il referendum del 1946 ha spaccato in due l’Italia, con un Sud massicciamente monarchico e un Centro-Nord repubblicano: l’esito del voto è stato accompagnato da accuse di truffe elettorali (per quanto infondate e strumentali), da agitazioni filomonarchiche di piazza (oltre venti morti a Napoli il 7 giugno in una notte di guerriglia urbana), da una partenza frettolosa per l’esilio del re Umberto II sollecitata da americani e inglesi per scongiurare i rischi della guerra civile. Non a caso la proclamazione ufficiale della vittoria della Repubblica viene accompagnata dal divieto (accettato da tutti i partiti) di manifestazioni di festeggiamento, che avrebbero potuto innescare rivalse e scontri. 2 giugno, dunque, divisivo come il 17 marzo.

Il risultato è un’Italia senza avvenimenti storici identitari in cui tutti possano riconoscersi, a cui fa da contraltare una liturgia civile sin troppo affollata di date e memorie: e, si sa, quando si vuole ricordare troppo si finisce per non ricordare nulla!

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