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Carlo Piacenza: “Filavamo la lana ai tempi di Galileo, adesso vestiamo le modelle. I miei figli sono la 14ª generazione”

9 mesi fa 10
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In Francia Luigi XIV, il re sole, non era ancora nato. In Italia Galileo Galilei pubblicava “Il Saggiatore” per divulgare il suo metodo scientifico. A Londra si stampava il “First Folio” la prima raccolta delle opere di William Shakespeare. In MancIuria i clan stavano per conquistare Pechino dando origine alla dinastia dei Quing. In Perù Diego Fernandez De Cordoba, marchese di Guadalcazar, fortificava le mura di Lima per difenderle dagli attacchi dei pirati. Nel 1623 a Pollone, dieci chilometri sopra Biella, Angelo Piacenza, commerciante , «girava per le cascine a raccogliere la lana, lavarla, sgrassarla con le urine e portarla ai venditori di tessuti. Così raccontano i documenti ufficiali dell’epoca che abbiamo ritrovato». Quattrocento anni dopo Carlo, esponente della tredicesima generazione dei Piacenza, è ormai in pensione: «A far funzionare l’azienda ci pensano i miei figli, Carlo Vasilii e Ettore Andrea, la quattordicesima generazione». Un record nell’album del capitalismo familiare.

La Piacenza è uno dei simboli dell’industria laniera biellese. Ogni anno sforna mille chilometri di tessuti, una pezza lunga da Torino a Potenza. Vende a tutti i principali marchi mondiali della moda, da Hermes a Louis Vitton a Loro Piana: «L’orgoglio – dice Carlo – è essere invitati alle sfilate e vedere il nostro tessuto negli abiti indossati dalle modelle. È un’emozione. Per questo faccio trasmettere i defilé sugli schermi della fabbrica, perché chi lavora ai telai sappia quanto è pregiato il nostro prodotto». Perché non produrre in proprio, con il proprio nome? «Vuole sapere la verità? Perché nella moda noi e i francesi siamo complementari. Noi siamo insuperabili nella manifattura, loro sono molto più bravi nel presentare gli abiti, creando intorno quello charme che li rende desiderabili. Come dico spesso, loro sono bravissimi a fare la cassa armonica per i nostri tessuti». Per esempio? «Sono molto più attenti all’immagine. La vede la scritta qui all’ingresso?». C’è scritto “Piacenza 1733”. Perché spostare in avanti di 110 anni la data di nascita dell’azienda? «Nel dopoguerra mio nonno vendeva a Hermes. Il proprietario dell’epoca, Emile-Maurice, gli suggerì di farsi disegnare un logo per pubblicizzare l’azienda. Mio nonno disegnò un cardo e scelse la data del 1733, l’anno in cui i Savoia avevano concesso al nostro lanificio l’utilizzo perpetuo delle acque della vallata. Un riconoscimento importante. All’epoca l’acqua non serviva solo a lavare e tingere la lana ma anche a far funzionare le macchine con la forza dei mulini. Non c’era l’energia elettrica. Ogni telaio era agganciato a una cinghia che trasmetteva il moto. Quando ero bambino nel gergo degli operai era rimasta l’espressione “dai acqua” per dire di accendi le macchine». Dunque 1733 è l’anno della concessione dell’acqua. E il cardo? «Ancora oggi i fiori secchi di cardo servono a togliere la lanella dai tessuti. È una lavorazione che richiede precisione. Abbiamo acquistato in Spagna campi di cardo dove crescono fiori con una specifica lunghezza per poter funzionare sui nostri macchinari, le garzatrici».

Carlo Piacenza è nato nella fabbrica dei tessuti. Ha mai pensato di fare altro nella vita? Certe volte il peso di una tradizione plurisecolare può diventare insopportabile… «No, non ci ho mai pensato. La lana è nel mio dna. Come avrebbe potuto essere diversamente? Quando ero piccolo il nostro appartamento era dentro lo stabilimento. Giocavo con il triciclo in mezzo ai telai». Ma non c’è stato neppure un momento di ribellione, il tentativo di sfuggire al destino? «Finito il liceo mi sono iscritto a Scienze politiche. Ho dato due esami ma ho capito che non era cosa. Oltretutto negli anni Settanta l’Università era un mondo in subbuglio. Mio padre mi chiamò e mi disse: “Sei sicuro di continuare? Per fare l’Università così, con questa fatica, non è meglio lasciar perdere?”. Due giorni dopo ero al lavoro nella nostra fabbrica». L’apprendistato del giovane Carlo è nel mondo: «Mio padre disse: “Cominciamo dalle materie prime”. Finii in Australia a contrattare l’acquisto dei miei primi lotti di lana. Prima di me lo avevano fatto tutti i miei avi. Mio bisnonno saliva sulla carrozza trainata dai cavalli e andava fino a Londra a scegliere i lotti migliori». Non sarebbe stato meglio affidarsi a intermediari? E perché Londra? «La rivoluzione industriale l’hanno fatta gli inglesi con l’industria tessile. Per secoli sono stati loro i re della lana. Gli intermediari? Meglio vedere di persona». Carlo avrebbe imparato presto la lezione della Manciuria: «Andavo a scegliere i lotti di lana cashmere. Ma appena ti giravi caricavano un lotto diverso. Allora ho cambiato metodo: caricavo il camion, chiudevo il portellone e solo dopo pagavo». Un’epoca pionieristica, quando erano pochi ad andare a scegliere di persona il prodotto nella Cina che stava lentamente liberalizzando gli ingressi: «Oggi è tutto più semplice. Ma i rapporti umani restano. Quando vado laggiù trovo ancora le famiglie che mi accolgono, tirano fuori un pentolone da sotto il tavolo e mettono la capra a cuocere». Triste fine quella della capra, sia pure nel contesto della festa. Ma chi tutela gli animali che sono all’origine del processo produttivo? «Innanzitutto – dice Carlo – la lana rappresenta ormai una parte molto piccola delle materie prime utilizzate dall’industria dell’abbigliamento. Soltanto l’1 per cento dei tessuti che indossiamo è lana». Naturalmente si tratta di una media. I capi di pura lana sono ancora i più pregiati: «E sono anche i più controllati. I grandi marchi pretendono che tutta la filiera sia ecologicamente sostenibile, dal consumo e dal riciclo dell’acqua fino al rapporto con i produttori. E poi che cosa c’è di più ecologico della lana? La pecora deve essere tosata. Altrimenti muore».

Viaggi, avventure, affetti. Carlo incontra l’amore in Perù, a 27 anni: «Le lane di alpaca vanno scelte sul posto. Ogni animale ha una gradazione di colore diversa, dal bianco al nero. Ne nascono tessuti pregiati perché non sono tinti, il disegno nasce dall’intreccio di fili di animali diversi». Parliamo di Talia: «Questa sì che è una storia avventurosa. L’ho conosciuta al Jockey club di Lima. Ci siamo sposati dopo 45 giorni ma… diluiti in un anno. Ci incontravamo durante i miei viaggi di lavoro». Talia è figlia di padre russo e madre spagnola. Ha alle spalle la storia d’Europa: «Suo bisnonno era un generale della scorta dello zar». Morirà ucciso nella notte del 17 luglio 1918 a Ekaterinenburg, quando vennero giustiziati i Romanov. La moglie riuscì a fuggire in Estonia portandosi dietro i figli. Uno di questi, dopo aver studiato in Germania, si imbarcò su un mercantile per il Perù. Scese a Lima ma al momento della ripartenza non arrivò in tempo al porto: «E fu la sua fortuna. Pochi giorni dopo la nave affondò. Lui rimase in Perù e mise in piedi un’azienda che vendeva farina di pesce. Suo figlio è il padre di mia moglie».

Un gomitolo che attraversa i secoli. La lana è così: fin dalla metà del ’700 quando i proprietari delle prime filature inglesi trasformarono (con la forza) i contadini in operai tessili mettendo a pascolo i loro campi, quel filo è il motore della storia dell’Occidente. Una delle chiavi per capire il nostro mondo.

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