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Caro direttore, per un attimo la notizia della scomparsa ha regalato a Jimmy Carter la fioca luce dei nostri ricordi. Solo per un attimo, credo. Di qui in poi è più facile che sia l’oscurità dell’oblio ad accoglierlo. Se non altro per far posto ad altre figure e ad altri racconti di cui la nostra memoria si affolla ogni giorno senza che noi riusciamo quasi mai a metterla in ordine.
Personalmente, credo che il mio ricordo durerà un po’ più a lungo. Anche perché non posso dimenticare quando Carter nel gennaio del 1979 ricevette alla Casa Bianca il segretario della Dc dell’epoca, Benigno Zaccagnini. All’epoca io ero ancora ragazzo ma per così dire “informato dei fatti”. E ricordo bene che si trattò di un incontro piuttosto inconsueto, dato che a renderlo possibile e ad organizzarlo provvidero mio padre e Beppe Pisanu. Impresa che portarono a buon fine forzando il protocollo presidenziale che prevedeva incontri solo ed esclusivamente riservati ai capi di Stato e di governo e giammai ai leader dei partiti (per quanto all’epoca la Dc potesse essere considerata quasi come un partito-Stato).
Ma non è tanto il ricordo personale che mi spinge a scrivere di Carter. Semmai è la curiosità di indagare un destino che la politica spesso offre a chi la pratica e a chi la guarda. Quel destino cioè che si annida nei dettagli e lì, in quelle minuscole peculiarità, svela i suoi caratteri. Molti di quei dettagli si perdono cammin facendo senza lasciare tracce di sorta. Mentre altri dettagli, magari più piccoli o forse meno significativi, diventano invece degli emblemi di cui non ci si riuscirà mai più a liberare.
L’emblema di Jimmy Carter fu la sconfitta. Meglio, le due sconfitte, inanellate l’una nell’altra. La sua incapacità di liberare i prigionieri americani presi in ostaggio dagli ayatollah iraniani. E la perdita della Casa Bianca due anni dopo a vantaggio di Ronald Reagan. Segni indelebili di un destino avverso che ha finito per cancellare ogni traccia dei suoi meriti e delle sue attività. E perfino del suo carattere, assai meno ingenuo e leggero di come poi lo si è voluto raccontare.
Non che pesasse poco tutto quello che, volendo, si poteva accumulare sull’altro piatto della bilancia. Gli accordi di Camp David tra Egitto e Israele. Il premio Nobel che ne conseguì, una ventina d’anni dopo. La contesa a muso duro con i russi che erano intervenuti in Afghanistan. E nel nostro cortile di casa la decisione di installare quegli euromissili contro cui insorgevano le piazze dell’epoca ma che pure ebbero l’effetto di frenare l’escalation militare sovietica che cominciava a farsi fin troppo minacciosa. Ma tutte queste prove e decisioni apparvero impari al cospetto di quei poveri ostaggi prigionieri nella loro stessa ambasciata. Quasi a suggellare l’impotenza dell’iperpotenza.
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Naturalmente tutta questa contabilità si potrebbe sempre interpretare in molti modi. Dunque, ci sarebbe da lasciare che ognuno giudicasse secondo il suo metro, e che Carter, come chiunque altro, venisse giudicato il più liberamente e il più laicamente possibile. Finendo così per far compagnia ai tanti suoi colleghi, da Kennedy a Nixon, sul cui buon nome il pendolo della storia ha oscillato e continuerà a oscillare da un estremo all’altro.
Me c’è qualcosa invece che in questo caso più specifico sembra lasciare il pendolo quasi fermo, come a significare un verdetto inesorabile. E cioè proprio il fatto che il povero Carter sia stato giudicato e direi quasi immortalato sotto il segno di una di quelle sconfitte che racchiudono appunto un destino. Cosa che forse ci dovrebbe indurre a capire meglio cosa sia davvero una sconfitta e con quali sinistri bagliori essa finisca per illuminare la storia.
Ora, la mia impressione è che la politica si nutra soprattutto di vittorie effimere e di sconfitte durature. E che in democrazia le sconfitte che capitano non debbano essere considerate come una mancanza di virtù e neppure di talento. Non solo perché esistono, come è ovvio, anche sconfitte meritorie, che rivelano valori preziosi. Ma anche perché è sempre la difficoltà che mette in movimento nuove energie, induce a correggere rotte discutibili, libera il campo per aprirlo a nuove forze e a nuovi propositi.
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Nessuna figura politica è mai così irenica, né così innocente come vuole apparire. Ma ogni leader degno del nome è come temprato dalle sue rinunce. E quando invece egli vuole apparire tutto d’un pezzo, onusto di gloria e di forza (magari quella forza che in cuor suo sente di non avere) è segno che un grandioso equivoco sta per prenderci prigionieri.
Cosa che ci riporta da Carter ai giorni nostri. Dove vanno per la maggiore leader energici, apparentemente tutti d’un pezzo, privi di ogni sfumatura, compiaciuti perfino della loro arroganza. Come se dovessero infondere fiducia ai loro elettori attraverso maniere forti, fortissime, perfino brutali. Ma si tratta quasi sempre di un’assertività fasulla, che si fa largo quando dall’altra parte i suoi destinatari - meglio, le sue vittime - si lasciano abbacinare da questa velenosa illusione. Non c’è quasi mai santità nella vita pubblica. A maggior ragione sarebbe il caso di non santificare la forza. E di guardare semmai alle fragilità dei potenti come a una merce preziosa di cui le nostre democrazia hanno ancora un gran bisogno. È sempre l’imperfezione dei nostri leader infatti a renderci forti. Anche quando li fa sembrare più deboli e perfino, alle volte, un po’ pasticcioni.