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Italia e Iran si stanno parlando. È un dialogo continuo, fatto in superficie di note ufficiali e comunicati, e nei canali più sotterranei di diplomazia e intelligence. Quelli che si sono aperti subito, il 19 dicembre, giorno dell’arresto di Cecilia Sala. Il confronto è schietto, ma intessuto di codici e segnali reciproci. Il destino della giornalista italiana è sempre stato in mano alla politica. E ora la politica ha mosso i suoi passi. È Giorgia Meloni, e sotto di lei, Carlo Nordio, ad avere il potere di far uscire Cecilia Sala dal freddo del carcere di Evin, darle un letto, e il caldo di una stanza sicura. È il primo obiettivo a cui lavora il governo. Ma per arrivare a questo esito, la presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia devono compiere una scelta su un altro detenuto, Mohammad Abedini Najafabadi, che al momento è in stato di detenzione cautelare su richiesta degli Stati Uniti. L’ingegnere iraniano, che ha anche la cittadinanza svizzera, è stato arrestato il 16 dicembre a Milano, accusato dagli americani di aver fornito tecnologia sotto embargo negli Usa per i droni delle Guardie rivoluzionarie, inseriti nella black list dei gruppi terroristici.
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La scelta è tra estradare Abedini o dare un dispiacere a Washington, accettando lo scambio con Sala, secondo le regole imposte dalla logica di Teheran che ha trasformato la giornalista nella pedina di un gioco internazionale esageratamente più grande di lei. Il governo e i servizi segreti stanno predisponendo un piano, che è suscettibile di aggiustamenti in corso, a seconda delle variabili più prevedibili. Secondo quanto riferiscono fonti di primo piano dell’esecutivo, l’orizzonte della trattativa è di circa due mesi. In questo arco temporale devono succedere alcune cose precise, il prima possibile: il compromesso proposto agli iraniani è di non consegnare Abedini agli Stati Uniti, ma senza farlo tornare in Iran, cosa che farebbe imbufalire gli americani. In cambio il governo chiede ovviamente la liberazione o quantomeno di trasferire Sala rapidamente nella sede dell’ambasciata italiana di Teheran, ai domiciliari.
I segnali, si diceva: sono arrivati chiari ieri, in una nota di Palazzo Chigi, al termine di un vertice riunito da Meloni. Per la prima volta il caso Sala e il caso Abedini sono stati messi in collegamento, nero su bianco in un comunicato dove si precisa che per l’ingegnere sarà «garantita parità di trattamento nel rispetto delle leggi italiane e delle convenzioni internazionali». È un passo che va nella direzione del regime degli ayatollah, spaccato al suo interno tra l’ala riformista rappresentata dal ministero degli Esteri, e gli irriducibili pasdaran che hanno imposto l’arresto dell’inviata del Foglio e di Chora Media, pur sapendo la reazione che avrebbe scatenato.
Il tempo è il fattore che in questo momento più inquieta il governo Meloni, soffocato nella stretta tra il ricatto iraniano e la richiesta del Dipartimento di Giustizia americano. Quello che emerge della strategia italiana è la volontà di accelerare il più possibile per tentare di uscire dallo stallo prima che Donald Trump entri nei pieni poteri di presidente americano e cambi i vertici dell’intelligence. A quel punto i servizi segreti italiani si potrebbero trovare di fronte qualcuno che non conoscono, interlocutori che sarà più complicato scontentare, perché potenzialmente in carica per altri quattro anni, mentre farlo con gli uomini dell’amministrazione di Joe Biden, che è ormai agli sgoccioli, è un rischio che Meloni sente di poter correre.
L’intelligence di Roma ha parlato apertamente ai colleghi di Washington di un precedente: l’8 dicembre 2022 la cestista Brittney Griner è stata rilasciata da una prigione russa in uno scambio di prigionieri con il trafficante di armi Viktor Bout, detenuto negli Stati Uniti. Secondo il governo, gli americani non possono impedire di tutelare in ogni modo la salute di una cittadina italiana di 29 anni, buttata in una cella senza nessun conforto. Al ministero della Giustizia sanno che Nordio avrebbe un paio di leve per risolvere la faccenda: revocare la misura cautelare ad Abedini o non firmare l’estradizione. L’intima speranza del Guardasigilli, come del resto dell’esecutivo, è che non si arrivi a questo: la scommessa è che i magistrati milanesi della Corte d’Appello non siano conseguenti con la procura generale che ieri ha dato parere negativo alla richiesta dei domiciliari. Ma c’è un altro precedente che complica il quadro: la fuga di Artem Uss, figlio di un’oligarca russo, scappato dai domiciliari mentre pendeva su di lui la richiesta di estradizione in Usa, e la potente irritazione americana che portò Nordio a scaricare la responsabilità sui magistrati. Un trattamento che le toghe milanesi hanno bene in mente in queste ore in cui si decide sulla probabilità di aumentare il pericolo di fuga di Abedini, in caso di trasferimento in una sede consolare garantita dall’Iran.
Se l’ingegnere dei droni resterà in carcere, e Meloni e Nordio non strapperanno con gli Usa, si entrerà in una fase diversa della trattativa, che dovrà sfruttare i tempi più lunghi dell’estradizione, lavorando con Teheran per un ammorbidimento. Non è escluso che il dialogo con gli iraniani sia portato in superficie anche a livello di ministri degli Esteri, e che Antonio Tajani possa incontrare il suo omologo in territorio neutro, magari a Ginevra. La priorità assoluta, adesso, è portare Cecilia fuori dal carcere, evitando di irrigidire un regime indebolito dalla reazione di Israele che ha falciato i suoi proxy in Libano, e dalla caduta dell’alleato Assad in Siria. I rapporti degli 007 che sono arrivati sul tavolo di palazzo Chigi, ad Alfredo Mantovano, che è l’autorità delegata, segnalano rischi potenziali per circa 500 italiani attualmente in Iran. In una società non democratica, priva di uno stato di diritto, gli arresti possono anche non avere una ragione, come nel caso di Sala. Oppure si possono basare sul capriccio ideologico. Come è stato candidamente riferito al governo: che Sala era seguita dal ministero della Cultura iraniano, infastidito da due servizi realizzati per Chora, poi postati sui suoi profili social. Uno su Diba, 21 anni, donna che sfida la teocrazia della guida suprema Ali Khamenei con i suoi capelli corti e rosso fuoco. L’altro sulla stand up comedian Zeinab Musavi: “Lei fa così ridere che le hanno tolto Instagram” è il titolo del podcast di Cecilia. L’ultimo, datato 18 dicembre, il giorno prima dell’arresto.