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La caduta di Bashar Assad non è una brutta notizia. Non lo è innanzitutto per la grande maggioranza dei siriani, non certo per i milioni di loro (tre solo in Turchia) rifugiati all’estero. Non saranno tante le lacrime siriane versate sulla fine di una dinastia al potere a Damasco per oltre mezzo secolo, con una storia di repressioni di inaudita violenza contro la popolazione – come il massacro di Hama del 1982 o l’uso di armi chimiche nel 2013.
Non è una brutta notizia geopolitica per l’Occidente alle prese con l’alleanza di fatto Russia-Iran-Corea del Nord – non dimentichiamo chi, da tre anni, sta attaccando l’Ucraina che noi appoggiamo. Ridimensiona la Russia che si era rilanciata come potenza internazionale proprio con l’intervento in Siria nel 2015.
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Un successo che, accompagnato dalla percezione di ritirata americana, può aver incoraggiato Vladimir Putin alla sciagurata avventura ucraina. È una doppia sconfitta per l’Iran, costretto a un’umiliante frettolosa evacuazione del proprio personale: Teheran perde il controllo che di fatto esercitava su Damasco e vede tagliato il cordone ombelicale con Hezbollah – altro perdente – in Libano. L’aura di invincibilità che circondava il trio Russia-Iran-Hezbollah si è disintegrato nel giro di una settimana.
Non è una brutta notizia per Israele che vede rompersi “l’arco di resistenza sciita” lo circondava a Nord sotto regia iraniana. Per un certo tempo, ai tempi delle primavere arabe, Gerusalemme preferiva avere a che fare col nemico conosciuto – Assad – che non con l’incognita dei movimenti ribelli in Siria.
Dal momento in cui Assad, per rimanere al potere, è divenuto cliente di Teheran e ha aperto le porte a Hezbollah, la Siria è entrata a far parte della minaccia iraniana all’esistenza di Israele. Contrastarla è la priorità di Gerusalemme dopo il 7 ottobre. La caduta di Assad è un altro tassello in questa direzione; la nuova Siria che emergerà dalla galassia ribelle si vedrà.
La caduta di Bashar Assad non è dunque una brutta notizia, ma non è ancora una buona notizia. Se lo sarà o mano dipende da due fattori. Innanzitutto, dagli sviluppi a Damasco. Hayat Tahir al-Sham (Hts), il gruppo che ha preso la capitale, ha radici in al-Qaeda, pur essendosene
dissociata, ed è tuttora designata come movimento terrorista. Il suo leader Abu Mohammed al-Jawlani promette ora moderazione, inclusività e non vendetta. Vedere per credere, ma bisogna dargli la possibilità di provarlo. Inoltre, l’opposizione al regima di Assad e’ una galassia; in altre parti della Siria, gruppi diversi da Hts l’hanno fatto crollare. Come si ricomporrà – se si ricomporrà – la galassia per governare il Paese.
Il secondo fattore saranno le reazioni regionali e internazionali. Dietro a Hts c’è la «comprensione», quanto meno…, di Ankara. Senza una mano dall’esterno, non si improvvisa un’offensiva lampo come quella che ha portato Hts a Damasco partendo da una striscia di territorio – al confine con la Turchia. Ankara segna un grosso punto a suo favore nella sfida con la Russia per l’influenza nel Mediterraneo orientale; l’altra partita fra i due si gioca in Libia.
Il Presidente eletto Usa, Donald Trump, ha detto subito di voler restar «fuori dalla Siria». L'Europa? O meglio, le principali capitali europee, fra cui annoverare l’Italia anche perché parliamo di Mediterraneo? Dopo decenni al rimorchio degli americani in Medio Oriente è tempo di pensare se volerne seguire l’esempio – e lasciare campo libero a Turchia, Russia, Israele, Iran, potenze arabe del Golfo – o ad avere un ruolo in quello che è il nostro vicinato. Un conto per gli americani starsene “fuori” – se ci riusciranno – un altro conto per noi.
Un primo passo urgente è decidere se e come stabilire un contatto con quelli che non sono più «ribelli» ma sono di fatto in nuovi padroni di Damasco. Non si tratta di un loro «riconoscimento» come nuovo legittimo governo siriano. Se ne parlerà a suo tempo. Ma, intanto, serve comunicare con loro. Senza perdere tempo.