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È un precedente storico dimenticato, che aiuta a capire la differenza tra la vecchia e la nuova America e Massimo D’Alema lo estrae dalla sua esperienza di presidente del Consiglio: «Noi europei, noi italiani abbiamo interesse vitale ai commerci e non possiamo certo immaginare di reagire alle eventuali politiche protezionistiche americane, rinazionalizzando le nostre politiche del commercio, materia esclusiva dell’Unione, magari chiedendo agli americani: ci togliete quel prodotto? A me capitò, ma fu un dono di Clinton, non una mia richiesta…”.
Uno sconto “personalizzato” sui dazi?
«Negli anni Novanta si era aperta una “guerra” delle banane. L’Ue aveva introdotto tariffe di favore per i prodotti in arrivo dall’Africa e questo danneggiava gli interessi della potente United Fruit Company. Gli americani reagirono, mettendo dazi su una serie di prodotti europei. Quando andai negli Stati Uniti, nel corso di una conferenza, dissi che gli americani avrebbero avuto più difficoltà a mangiare il prosciutto crudo, il pubblico sorrise e il presidente Clinton, alla fine di quell’incontro, segnato da un generale feeling, si fece portare la lista dei prodotti gravati dal dazio e cancellò il prosciutto. Fu un gesto di amicizia, non richiesto e può darsi che la presidente del Consiglio ottenga qualcosa di simile, ma non è la soluzione del problema. Perché la presidenza Trump suggella e amplifica una crisi epocale».
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Si fatica a trovare un filo rosso in Trump: c’è la tecnica negoziale dell’ex immobiliarista abituato alla trattativa al rialzo, c’è la psicologia del narcisista patologico, c’è la telefonata ad effetto che riapre la questione ucraina: in cosa può cambiare l’ordine del mondo?
«L’amministrazione Trump segna la fine di qualcosa che era già in crisi profonda: l’ordine mondiale liberale. Perché era in crisi il soggetto fondamentale attorno al quale questo ordine si è costruito: l’Occidente. Un ridimensionamento anzitutto di peso economico: quest’anno i Brics hanno prodotto una quantità di ricchezza che è cospicuamente superiore a quella delle economie del G7. Ma oramai vengono rimessi in discussione i principi intorno a cui l’ordine liberale è stato costruito e questo avviene non soltanto per la sfida delle autocrazie, ma da parte della stessa amministrazione americana, che mette in discussione principi e valori».
Sull’Ucraina qualcosa si sta muovendo e l’Europa protesta: con qualche ragione?
«Noi abbiamo interesse alla pace e non a soluzioni che ci vengano imposte, né ad est né al sud. Soluzioni nelle quali l’Europa sia partecipe e protagonista. Il fatto che l’Europa non abbia elaborato una sua strategia su come concludere la guerra in Ucraina è stato un gravissimo atto di irresponsabilità politica. Abbiamo pensato soltanto che si dovessero produrre munizioni e non una strategia politica. E oggi, mentre gli americani aprono una trattativa, è abbastanza penoso che noi dobbiamo rincorrere: ci siamo anche noi… Un ritardo evidente. Era chiaro dall’inizio che questa guerra non la poteva vincere nessuno. E che quindi bisognava lavorare per tempo ad una soluzione politica sostenibile».
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L’Unione europea imperfetta ma incardinata su valori di libertà e pacifica convivenza è a rischio?
«Noi europei abbiamo interessi non coincidenti con quelli degli Stati Uniti. Certo, dobbiamo regolare questa diversità di interessi nell’ambito di un’alleanza, ma ora stanno emergendo divergenze sui valori. L’Europa tarda a prendere atto di questa novità. Tende a non prenderla sul serio. Il primo errore capitale sarebbe reagire in ordine sparso. È una vecchia furbizia gradita non solo dagli americani, ma anche dai cinesi. Le grandi potenze faticano a discutere con l’Unione europea, perché con i singoli posso trattare dall’alto in basso. Con l’Ue si devono mettere al tavolo alla pari. Ma ora il quadro della legalità internazionale pare lacerato e se si torna ad un confronto tra potenze, l’Europa deve cercare di essere una potenza. E dunque non può avere nei confronti della Cina lo stesso atteggiamento degli americani che pretendono dai noi durezza, per poi andare a negoziare dai cinesi i loro interessi».
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Ma la natura autoritaria della variante cinese al capitalismo, non presenta rischi?
«Certo, dobbiamo negoziare, perché vogliamo parità di condizioni, un riequilibrio della bilancia commerciale, una maggiore apertura del mercato dei servizi. Ma spezzare il rapporto con loro sarebbe suicida. Se ci facciamo coinvolgere in una politica di tipo protezionistico, ci facciamo del male. Questo armamentario della nuova guerra fredda tra democrazie e autocrazie va smontato: l’interessa vitale per l’Europa è creare le condizioni per una nuova coesistenza pacifica».
A Gaza dare corso alla seconda fase degli accordi sanzionerebbe una perdurante presenza di Hamas? È questa la vera ragione dell’impasse?
«Il presidente degli Stati Uniti e il primo ministro israeliano, incriminato per gravi crimini contro l’umanità che progettano di fare dei resort sulle fosse comuni rappresentano una sfida ai nostri valori. È nella disperazione dei campi profughi che nasce il terrorismo. L’unico modo per evitare il fondamentalismo è creare uno Stato palestinese con un’assunzione di responsabilità della comunità internazionale che impone una soluzione: le parti in conflitto, da sole, non sono in grado di trovarla».
L’Italia è stato l’unico grande Paese europeo che non si è unito alla condanna in sede Onu alle sanzioni Usa verso la Corte penale internazionale: cosa vuol dire?
«L’attacco demolitorio alla Corte internazionale è partito dagli Stati Uniti ma è importante che 79 Paesi democratici abbiano reagito. È grave che l’Italia non abbia aderito un documento in difesa del Trattato di Roma».
La presidente Meloni si è proposta come ponte tra Europa e Usa: al di là del peso specifico dell’Italia, nelle stagioni telluriche i ponti non sono i primi a vacillare?
«Il sistema industriale del nord Italia è strettamente connesso al sistema industriale tedesco: quello è il grande polo manifatturiero europeo ed è unito da un destino comune. L’Italia può auspicabilmente svolgere un ruolo politico ma nel nome e negli interessi europei che non sono scindibili: fattualmente e non per ragioni di principio. Andare in ordine sparso sarebbe suicida».