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«Il giorno in cui hanno ammazzato mio padre io ero stata fredda con lui, da mesi avevamo rapporti burrascosi».
Dietro ogni delitto di mafia, c’è sempre la storia intima di una vita. Di una famiglia. Una storia unica al mondo, travolta dalla ferocia e dal clamore. Per questo bisogna partire da qui. «A marzo del 1995 io e mio padre non andavamo molto d’accordo, ero un po’ ribelle. Avevo appena lasciato il mio fidanzato e stavo pensando di cambiare tutto. Alle 3 di pomeriggio del 31 di marzo, mi preparavo a andare in biblioteca per prendere dei documenti che servivano ai miei studi. Ho sentito lo sventolio del cappotto di papà. Le sue parole: “Daniela, ricordati di chiudere il riscaldamento. Ho acceso perché fa freddissimo”. Ho risposto dalla mia stanza: “Va bene, ciao”. Non ho fatto come le altre volte, che lo accompagnavo alla porta. Eravamo un po’ in rotta. Non nascondo che per tutta la vita mi sono pentita di non essermi alzata per augurargli buon lavoro».
Quella sera di marzo Francesco Marcone, funzionario dell’Ufficio Registro di Foggia, è stato ucciso con due colpi di pistola alla schiena mentre tornava a casa dall’ufficio. Era un uomo di Stato. Una persona scrupolosa. Aveva scoperto un giro di corruzione. Pratiche oliate a vantaggio di alcuni. Erano gli anni del boom edilizio, un permesso poteva decidere una fortuna. Aveva denunciato tutto con un esposto in Procura, la notizia era uscita sulla stampa locale il 22 marzo. Bisognava pagare per ottenere il disbrigo di certe pratiche. Francesco Morcone, per tutti Franco, scelse di opporsi a quel sistema.
«Quando sono tornata a casa la sera, erano le 19.15, ho trovato l’automobile della polizia e l’inquilino del piano matto, un commercialista, che mi ha detto: “Daniela, non entrare. C’è una persona riversa per terra, hanno sparato”. Come prima reazione, sono scappata. Ma poi mi sono resa conto che quello era l’orario in cui si ritirava papà. Sono tornata indietro correndo, mi hanno permesso di guardare da un portone di legno. Nel buio, non riuscivo a capire. Faccia a terra, cappotto. Solo una cosa era luminosa: le calze di filo di Scozia che mio padre si ostinava a mettere chiare anche con i calzoni scuri. Sono entrata gridando. C’era un poliziotto, lì davanti. Queste sono state le sue parole: “Devi essere forte. Tuo padre è stato ucciso dalla mafia”».
Si chiama “Società foggiana”. È la mafia del Gargano, una delle più sanguinarie. Allora, nel 1995, era ancora poco conosciuta. Anche se, a ben guardare, due costruttori che si erano opposti a quel sistema di corruzione erano stati uccisi tre anni prima. Ma mancavano le coordinate, alcuni pezzi per mettere insieme il quadro. Anche la figlia, Daniela Marcone, era incredula: «In quel momento per me era tutto assurdo. Pensavo a uno scambio di persona. Non riuscivo a capire. Poi mi sono ricordata di quella denuncia. Di papà che commentando l’articolo di giornale aveva detto amaramente: “Mi hanno sbagliato anche il nome”. Al funerale le parole del vescovo di Foggia, monsignor Casale, furono queste: “Quanti altri omicidi di persone perbene dovremo aspettare per comprendere la criminalità mafiosa che c’è nella nostra città”».
Sono passati 29 anni. Quell’assassinio di mafia è rimasto irrisolto. L’uomo di Stato Franco Marcone è ancora senza giustizia. Eppure, c’erano molte tracce da seguire. Ma per anni furono sistematicamente ignorate. Per dire come vennero fatte le indagini: non furono nemmeno richiesti i tabulati telefonici. Gli appelli di Libera, accanto alla famiglia della vittima, portarono alla riapertura del caso. Ma il giudice per le indagini preliminari, Lucia Navazio, così scrisse nel decreto di archiviazione: «La lettura degli atti ha determinato nel gip il convincimento che un concreto contributo alle indagini poteva essere dato anche in prima battuta da soggetti inseriti nel circuito sano della società civile, chiaramente venuti meno a quel dovere civico di collaborazione, che riguarda ogni cittadino».
Il muro dell’omertà era stato eretto dalla cosiddetta società civile, per coprire gli affari indicibili che il funzionario Marcone aveva scoperto. Fra le vittime delle mafie, questa storia è poco ricordata. Ma nel 2005 a Franco Marcone è stata conferita la Medaglia d’oro al Merito Civile. La scuola di Pubblica amministrazione della Provincia di Foggia è intitolata a suo nome. Resta l’impegno di Libera per ricordarlo, resta la dolcezza di chi l’ha amato. La figlia Daniela Marcone: «Penso spesso all’ultima estate insieme, quella del ’94. I primi di luglio. Andavamo a Vieste, avevamo una piccola casa. Dovevamo partire solo io e mamma, ma all’ultimo si è aggiunto lui. Non ero molto contenta. Sapevo che era partito perché, forse, voleva parlarmi. Invece mi lasciò tranquilla per tutto il tempo. Un giorno, mentre camminavo lungo la spiaggia, si è avvicinato e mi ha raccontato della sua vita, degli errori che aveva fatto. Poi ha detto: “Figlia mia, tu mi assomigli molto, noi seguiamo i nostri sogni. Ma bisogna saper tenere i piedi saldi a terra”. È un ricordo bellissimo e amarissimo allo stesso tempo. Chissà se mio padre, ancora adesso, sarebbe della stessa idea».