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Dazi, cosa cambia ora? Via all'effetto domino, inizia il grande gioco delle tariffe: i rischi per l'Europa dopo la stretta di Donald Trump

6 ore fa 1
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Sarà anche vero che, con i dazi, per l'America si aprirà «una nuova età dell’oro» come ha promesso Donald Trump. Ma è altrettanto vero che, come ricorda l'antico adagio, non è tutto oro quello che luccica.
Per capirlo, basta scorrere gli gli ultimi dati elaborati dall'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale: se The Donald dovesse davvero mettere mano alla fondina delle tariffe (finora lo ha fatto solo con la Cina) l'impatto sul pil non si avrebbe solo per Messico (-1,4%) e Canada (-1,2%) ma anche, per effetto boomerang, sulla crescita Usa, che finirebbe per lasciare sul terreno lo 0,33% con un aumento significativo dei costi per i consumatori americani. L’inquilino della Casa Bianca lo ha messo in conto: «Ci sarà qualche dolore? - ha scritto su Truth - forse, ma ne varrà la pena».

LA STRATEGIA

«L’elemento più preoccupante», spiega Alessia De Luca, analista Ispi esperta di Stati Uniti, «è che Trump sta dimostrando di non credere in accordi win-win in cui a vincere sono entrambi i contraenti: in un’economia profondamente interconnessa come l’attuale, questo è un problema non secondario». Soprattutto per l'Europa.
Guardando a Usa, Ue e Cina, i dazi reciproci in vigore alla vigilia della rielezione di Trump erano 140: 23 contro 18 quelli di Washington verso Pechino, 35 contro 45 quelli europei verso gli States, 12 contro 7 le tariffe dell'Unione europea verso la Cina. E il ritorno di The Donald, conoscendo il precedente, può solo peggiorare la situazione: dati World Bank sull’aliquota media imposta dagli Usa negli ultimi 30 anni alla mano, si nota come, tra il 3,9% del 1989 e l’1,5% del 2022, nel 2019 spunta il picco del 13,8%: nello Studio Ovale, al tempo, sedeva Trump.

Oggi, la storia sembra pronta a ripetersi. E non in farsa. Messi in stand-by per 30 giorni i dazi da e verso Città del Messico e Ottawa, ieri Washington ha alzato la barriera del 10% su tutto il made in China. E la risposta non si è fatta attendere: a stretto giro, Pechino ha annunciato che, dal 10 febbraio, entreranno in vigore tariffe del 15% su carbone e Gnl e del 10% su petrolio, attrezzature agricole e auto di grossa cilindrata in arrivo dagli Usa. E siamo ancora nella fase di riscaldamento: «Stiamo assistendo – spiega De Luca – a un po’ di fuochi d’artificio da parte di Trump, che vuole dimostrare al suo partito e agli elettori che il programma Maga (Make America Great Again) è già sul binario giusto».

Tra i due vasi di ferro c'è, poi, il vaso di coccio: l’Europa. Guardando verso l’altra sponda dell’Atlantico, spiega De Luca, «Bruxelles procederà con la strategia del bastone e della carota, evitando in prima battuta il muro contro muro e acquistando Gnl, armamenti e altri prodotti». Se poi non dovesse funzionare, «si risponderà a dazi con dazi puntando sui beni (come il bourbon o le Harley-Davidson) prodotti negli stati amministrati da governatori repubblicani che finirebbero per far pressione su Trump per convincerlo a desistere». Posto che, come ha ricordato la responsabile della politica estera Ue, Kaja Kallas, da una guerra commerciale Usa-Ue «l’unica a ridere sarebbe la Cina».

Volgendo invece lo sguardo a Oriente, i dazi quinquennali imposti nei mesi scorsi dall'Unione sulle auto full-electric prodotte in Cina (si va dal 7,8% su Tesla al 35,3% su Saic, da maggiorare del 10% contando i preesistenti) non hanno sortito alcun effetto se non quello di provocare la reazione di Pechino. Tra le contromisure cinesi, quella sui brandy del Vecchio Continente: dal 34,8% a Courvoisier al 39% contro Hennessy.

«Abbiamo imposto i dazi alla Cina prima che Trump entrasse in carica per dimostrare la nostra buona volontà», dice De Luca, anche perché «l’Ue non è in grado di portare avanti una guerra in contemporanea su due fronti: se gli Usa scatenano i dazi contro l’Europa, questa finirebbe per non reggere il pressing commerciale cinese». E non solo: «Se i dazi americani verso la Cina dovessero restare in vigore o aumentare, il mercato Ue finirebbe esposto a un profluvio di beni cinesi in cerca di sbocco, con un impatto devastante sui nostri produttori».

L’ITALIA

E l'Italia? Tra i partner europei, lo Stivale è sicuramente tra i più sovraesposti grazie all’alta qualità dei prodotti made in Italy, dall'agroalimentare alla moda. Secondo i dati dell'Osservatorio Federvini-Nomisma, l’export di vino italiano nel mondo viene assorbito per il 29% dagli Usa, per un valore di 939 milioni di euro nella sola prima metà del 2024. In 20 anni, il vino italiano sulle tavole americane è aumentato del 188%. 
Numeri che potrebbero ridimensionarsi drasticamente se l'Ue dovesse rilanciare i dazi, oggi sospesi nei confronti di Washington, tra cui quelli legati alla disputa Airbus-Boeing.

Tra le eccellenze italiane non c'è, ovviamente, solo il vino. Elaborando i dati World Bank, l’Agenzia Ice ha quantificato il peso medio dei dazi imposti all'Europa (e quindi all'Italia) nel 2022. Tra le categorie più tassate negli Usa, il tessile (8,9%), il cibo (5,8%) e la manifattura (3,9%). Il cibo sale in prima posizione (12,2%) guardando all'export verso la Cina: seguono i carburanti (7,9%) e, a pari merito, tessile e materie prime agricole (7,1%). Un tariffario che oggi rischia di inasprirsi ulteriormente, rendendo i dazi ancora più amari. Per tutti.

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