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Che il capitalismo abbia da sempre cercato di influenzare la politica per garantirsi maggiore libertà non è certo una notizia. Chi guarda con giustificato allarme alle incursioni di Elon Musk nelle questioni europee, temendo che interi settori strategici possano finire nelle mani di un privato, dovrebbe riconoscere questa evidenza storica, ricordandosi che da decenni affidiamo i nostri dati sensibili e la nostra sicurezza a software statunitensi che operano su hardware asiatici.
Ciò che dovrebbe allarmarci, piuttosto, è il significato che questa influenza assume oggi. Le dichiarazioni di Musk su Gran Bretagna, Germania o Italia non sono solo il riflesso di un ego che oltrepassa i confini Usa, ma anche il risultato di uno spazio vuoto che abbiamo permesso si espandesse nel tempo, e nel quale il miliardario sudafricano ha saputo infilarsi con successo. E non solo lui.
L’evoluzione del capitalismo verso ciò che Yanis Varoufakis ha definito «tecno-feudalesimo» è il frutto di questo processo. L’inarrestabile dominio delle Big Tech che si regge su una scala di potere in continuo ampliamento e su ramificazioni di influenza sempre più pervasive. Già Hegel ci aveva insegnato che, con l’aumento quantitativo di un fenomeno, cambia anche la sua qualità. Oggi, più che mai, siamo testimoni di questa trasformazione, sia nella sua dimensione tecnologica che nei suoi riverberi politici. Ci troviamo di fronte a ordini di grandezza senza precedenti, capaci di determinare la corsa allo spazio, decidere cosa possa essere venduto a un intero continente o stabilire come disporre dei dati di miliardi di persone. Un potere tecnico ed economico così vasto da consentire l’esercizio di una volontà pubblica, senza apparentemente aver bisogno del consenso di governi o cittadini. Musk può ignorare le proteste di Scholz, Macron, Mattarella, o di chi si indigna per la sua decisione di mettere a disposizione di AfD il suo social network personale. Allo stesso modo, Mark Zuckerberg può modificare le regole delle sue piattaforme allineandosi al trumpismo. In fondo, questi individui non si rivolgono a cittadini votanti, ma a utenti di una legittima proprietà privata che hanno accettato le loro condizioni cliccando su un semplice «Iscriviti».
Ma se il fenomeno è globale, le sue implicazioni rappresentano un problema soprattutto per l’Occidente. Non solo perché Paesi come Cina e Russia hanno sistemi di controllo su tecnologia e informazione che lasciano poco spazio al liberalismo, ma perché si tratta di questioni che riguardano la natura stessa della democrazia. Il nostro sistema, pur imperfetto, si fonda su un patto sociale condiviso. Un modello costruito sullo scambio di contributi e responsabilità tra cittadini e istituzioni e che, seppur complesso, ha dimostrato di funzionare meglio di una contesa senza regole, quantomeno perché ci ha impedito di annientarci a vicenda. Quello che Musk, Zuckerberg e gli altri ci mostrano con inquietante evidenza è che, invece, abbiamo alimentato l’idea che le nostre democrazie siano principalmente arene di competizione, dimenticando che, prima di tutto, sono patti di cooperazione.
Ciò è accaduto anche perché la democrazia, con il suo articolato sistema di controlli e divisioni dei poteri, appare a molti troppo lenta nel rispondere alle urgenze del mondo. Poco importa che la sua «macchinosità» sia una garanzia per la nostra sicurezza: se ci sentiamo minacciati, ad esempio dalla necessità di avere una connessione più rapida e sicura rispetto al nostro nemico, correremo da chiunque possa fornircela. Una fretta che rischia di farci dimenticare quanto sia pericoloso prendere decisioni senza una visione strategica: potremo anche colmare rapidamente i vuoti, ma rischiamo di fare un salto nel buio.
La domanda, allora, è se ci troviamo di fronte a un destino inevitabile, o se sia possibile uscire dal circolo vizioso che rende la competizione così attraente rispetto alla cooperazione. È evidente che vigilare e stabilire paletti normativi è indispensabile e urgente, ma non basterà. Finché il patto sociale democratico continuerà a essere percepito con crescente sfiducia, sarà difficile invertire la tendenza. Dobbiamo tornare a convincerci che la cooperazione, pur lenta, è infinitamente più vantaggiosa. Per farlo, è essenziale realizzare progetti che ne evidenzino i benefici con chiarezza. E ciò non sarà possibile puntando a soddisfare ogni esigenza allo stesso momento: il Next Generation Eu, il più grande piano cooperativo mai varato in Europa, non è stato percepito come tale, dimostrando che promuovere la cultura della cooperazione non è una questione di puro budget o di quantità delle idee. Sarebbe forse più saggio, allora, investire in programmi meno vasti e ambiziosi, ma capaci di far emergere senza equivoci la convenienza e il valore di intese collettive rispetto a seducenti ambizioni individuali. Una volta chiarito questo concetto, forse saremo noi a spiegare qualcosa a Musk.