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Da ragazzino timido e silenzioso a protagonista dell’intrattenimento nazional-popolare: Natale in tv nel più sfacciato dei tg e Capodanno a teatro in un musical dove si scatena. Quasi senza voce e con una discreta bronchite, Enzo Iacchetti ci assicura che per lui questo è il miglior modo di passare le Feste. «Sono 25 Natali che con Ezio Greggio faccio gli auguri al pubblico di Canale 5. Brindare all’Anno Nuovo da un palco rende tutto ancora più esaltante. I cast di Striscia e Tootsie sono famiglia per me. E le Feste si fanno in famiglia, o no? » .
Certo, a teatro un po’ rischia la salute. «Sono l’anzianotto del gruppo», scherza. Nel musical ispirato al film omonimo con Dustin Hoffman, in scena al Teatro Manzoni di Milano dal 26 dicembre al 1° gennaio (a seguire tournée con tappe a Genova in gennaio, a Roma in febbraio e a Torino, al Colosseo, a marzo), non è il protagonista (Paolo Conticini), ma il miglior amico e spalla. «Recito, ballo e canto. E a fine giornata devo aiutare la schiena affaticata con cerotti antinfiammatori». Ma il musical «è la mia valvola di sfogo: unisce tutto ciò che amo, recitare la commedia e cantare. E in più c’è la danza». Come rinunciarci? L’ultima volta l’aveva fatto nel Vizietto: oltre 10 anni fa.
Come se il tempo si fosse fermato? L’anagrafe dice 72, e lei?
«Va a giorni. In conferenza stampa di Tootsie dicono che ne abbia dichiarati 62. Forse un lapsus, o forse no. La testa è molto prima, sui 55. È il corpo che scricchiola. Oggi particolarmente: i 72 me li sento tutti, e pure qualcuno di più».
Il suo personaggio è sceneggiatore e scrittore ma di insuccesso. Non le ricorda un po’ i suoi faticosi esordi?
«Non proprio. Jeff ha un carattere solare e se ne frega: prima o poi ce la farà, intanto si fa andare bene il piano B, gestire un ristorante. È Tootsie/Michael, che vuole il successo a tutti i costi. Io non ho mai avuto questo accanimento, anche quando le cose non erano facili. E anche dopo, quando avrei potuto avere un successo ancora maggiore, ho detto molti no. E questo perché sono pigro, mi basta ciò che ho: vivo più che decentemente con il mestiere dei miei sogni e una bella popolarità».
A chi ha detto no?
«Quando Striscia era un fenomeno da 12 milioni di telespettatori, a più riprese la Rai mi ha fatto proposte mirabolanti: per dividermi da Ezio con cui formavo una coppia imbattibile. Mi dicevano “Ti diamo il doppio” senza nessun progetto definito ma solo tanti “faremo, studieremo”. Io però sono un fedele, mai tradito (e me ne vanto). Che me ne frega del doppio, se sto bene dove sono?».
Pier Silvio Berlusconi per la prima volta ha messo in dubbio la sacralità di Striscia. Cosa ne pensa?
«È lo stesso Ricci ad averlo detto. Quei tempi non ci sono più per nessuno: ci sono le piattaforme, i social, altri canali non più di nicchia. Certo, De Martino è bravissimo ma Affari tuoi funziona a prescindere, chiunque lo conduca: gli italiani vogliono vedere dove e a chi finiranno i soldi. Noi siamo i soli a rischiare, a fare satira e controinformazione, a cambiare un po’ ogni sera, in pari con la vita fuori. Detto ciò, Berlusconi farà ciò che vuole. Ma trovare un’alternativa non sarà facile, per non pensare alle reazioni che potrebbe avere il nostro piccolo zoccolo duro. Comunque: da quando Ezio ed io siamo tornati, gli ascolti sono in ripresa».
A Striscia è da 31 anni. Ma è il Maurizio Costanzo Show che l’ha fatta conoscere. A che deve di più, Ricci o Costanzo?
«Con Antonio ho conosciuto il fulmine della popolarità di massa. Maurizio invece è stato il mio pigmalione, una specie di zio che si preoccupava anche della mia vita. Mi salvò da una situazione drammatica: dopo 20 anni di tentativi a vuoto, raggiunti i 39, stavo seriamente pensando di lasciare per fare il cameriere. Dopo un primo provino finito nel solito modo, ebbi una seconda chance: ci fu chi apprezzò il mio stile e lo sottopose direttamente a Costanzo, che mi mise subito tra gli ospiti: era il 31 ottobre 1990, partii a razzo (e pure il mio conto in banca)».
Si ricorda con cosa debuttò?
«Un romanzo bonsai. “Ohh mucca sonante il batacchio pesante, /pungente il fastidio di pioggia battente. /Pioggia e batacchio.../Ohh mucca. Che vita del cacchio”. In 8 secondi la triste condizione di una povera bestia».
A Striscia invece come arrivò?
«Si ventilava di un cambio nella conduzione. Sapevo che lì sarei stato bene e lo dissi in giro. Forse Ricci colse la voce nell’aere: firmai per una settimana, poi per un mese, e ora sono 31 anni. Ero “quello che va da Costanzo”, con Striscia mi riappropriai del mio nome».
Che bambino era Enzino Iacchetti?
«Timido, introverso, ubbidiente. Malinconico. Però quando a scuola si facevano saggi e recite e salivo sul palco, mi facevo coraggio e diventavo il mio opposto. In fondo non sono cambiato granché: anche ora lontano dai riflettori sto per conto mio, silente e appartato. All’inizio, però, il mio sogno non era recitare o far ridere, ma cantare: volevo essere come Celentano che sul palco di Sanremo 1961 aveva voltato le spalle al pubblico e si era scatenato con 24mila baci. Lo vidi in tv, ne fui folgorato».
L’umore le arriva dalle brume lacustri?
«La malinconia del lago certamente mi ha impregnato. I pensieri volano e battono contro le montagne, ritornandoti in testa. Se vivi in cima al lago Maggiore (a Maccagno, il mio paese, già Luino è città e Varese metropoli), non hai alternative: o resti lì, immoto; o scendi a Milano e fai cabaret. E infatti la lista è lunga: Fo, Pozzetto, Salvi, Boldi...».
Milano allora significava Derby. Giusto?
«Mediamente “giravano” 14 artisti. Quando uno diventava famoso e lasciava, si aprivano i provini per occuparne il posto. A me lo disse Salvi, che Abatantuono se ne andava per fare il cinema. Entrare non era facile: mica bastava qualche barzelletta, lì funzionava un umorismo più rarefatto e surreale. Dopo tanto dietro le quinte a capire e imparare, nel 1979 entrai finalmente nella rosa dei 14».
Cosa ricorda dei tempi della gavetta?
«Vivevo in un appartamento di una sola stanza con Giobbe Covatta (ma spesso eravamo parecchi di più a dormirci). Giravamo per night e pizzerie: ti tiravano crostoni di pizza e mozziconi. Il pubblico rumoreggiava e provocava per spingerti al limite. Dovevi tenere duro per il tempo stabilito dal contratto e portare a casa almeno un applauso, o non ti pagavano. Io non cedevo, minacciavo di non muovermi, e per finire mostravo la foto di mio figlio, invocando: niente applausi, niente soldi, e io come la nutro la creatura? Era dura ma anche una grande scuola, da cui è passata tutta la nostra generazione di cabarettisti».
Qualche rimpianto?
«Il cinema. Ma è romanocentrico e – come ho detto – sono pigro. Però confido in Pupi Avati: a Splendida cornice, il programma di Geppi Cucciari, mi ha già fatto un provino in diretta e ha detto di essere interessato a lavorare con me. A questo punto, io ci conto».