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Femminicidi nei giovani, la psicologa: «Nei nostri figli si può nascondere un killer». Segnali ed errori di educazione

3 settimane fa 2
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Due femminicidi, quello di Ilaria Sula a Roma e l'altro di Sara Campanella a Messina, ma un movente comune. L’uomo non accetta il rifiuto da parte della donna. «Le vittime sono unite dalla determinazione nel dire “no” a ciò che non le faceva stare bene», commenta Cristiana Alessia Guido, psicologa clinica e perito del tribunale di Roma. Ma dove vanno ricercate le cause? «Il femminicidio può avere origine in fragilità individuali – prosegue la dottoressa Guido – come un’emotività instabile, stili di attaccamento insicuri o disorganizzati, o disturbi di personalità». Questi omicidi si potevano evitare? E la scuola che ruolo ha nell'educazione? Il parere della professionista.

Cristiana Alessia Guido, psicologa clinica e perito del tribunale di Roma

Cosa hanno in comune le due vittime?

Ilaria e Sara, entrambe ventiduenni e studentesse universitarie, condividono molto più di un’età e di un percorso accademico. Le accomuna la capacità di gestire con autonomia la quotidianità e le relazioni, senza dipendere da una figura maschile. Le unisce la determinazione nel dire “no” a ciò che non le faceva stare bene, e la lucidità di scegliere e selezionare in base ai propri bisogni.
È una colpa, questa? Assolutamente no. Ma può diventare destabilizzante per chi crede di possedere quella stessa forza interiore senza averla realmente.

Quale personalità i killer?

Dalle ancora incomplete descrizioni emerse dalle indagini, dalla figura di Mark Samson traspare una fragile identità desiderata ma mai realizzata. Un ragazzo che, come Ilaria, avrebbe voluto diventare autonomo, ma che di fatto non lo era. È stato descritto come un ragazzo che viveva ancora con i genitori e che, pur dichiarando di essere vicino alla laurea, aveva sostenuto un solo esame.

Come anche quella di Stefano Argentino che sembra ossessionato da Sara, incapace di accettare il suo rifiuto e il fatto che lei potesse scegliere qualcun altro. Un'incapacità, la sua, di riconoscere l’autonomia e la libertà dell’altro.

Dove vanno cercate le responsabilità?

Nel non saper vedere l’altro come individuo distinto e separato da sé. Nel negare i segnali di un chiaro rifiuto, nel non rispettare la volontà altrui, nell’assenza di confini, nella distorsione della realtà.
Le responsabilità, così come le cause, sono complesse e di natura multifattoriale. Il femminicidio può avere origine in fragilità individuali, come un’emotività instabile, stili di attaccamento insicuri o disorganizzati, o disturbi di personalità. Ma spesso si intrecciano anche con fattori culturali, in cui l’uomo è ancora rappresentato come figura dominante, e con contesti sociali dove l’esclusione da parte dei pari porta all’isolamento e all’alienazione, sia fisica che psicologica.

I social influiscono?

I social media veicolano narrazioni distorte, spesso aggressive, che riducono la donna a oggetto e ne svuotano il valore umano. Contenuti che talvolta idealizzano modelli antisociali o promuovono la ricerca di visibilità attraverso mezzi lesivi della dignità altrui.
Materiale accessibile a chiunque, anche a chi non è in grado di distinguere il confine tra reale e fittizio, tra ciò che è lecito e ciò che non lo è.

Tutti questi sono fattori di rischio. E, a diversi livelli, possono contribuire alla genesi di comportamenti violenti.

Cosa non funziona nell’educazione da parte dei genitori?

Non è possibile generalizzare: non esiste un vademecum unico e valido per ogni genitore. Tuttavia, dall’esperienza clinica emerge con chiarezza un elemento che sembra predisporre maggiormente i figli a una fragilità psichica: la discontinuità o la carenza più o meno mancata nell’accudimento. Parliamo di una cura intermittente, incerta, spesso priva di rinforzo positivo, in alcuni casi perturbante dello sviluppo psichico.

In una società iper-performante e altamente esigente, i giovani si trovano a dover rispondere a richieste spesso sproporzionate rispetto alle loro reali capacità. Il compito dei genitori è allora quello di trovare un equilibrio tra normatività e flessibilità, per accompagnare i figli verso uno sviluppo armonico ed equilibrato.

Quali i rischi nell'educazione "estrema"?

Talvolta si cade in estremi opposti: si diventa eccessivamente punitivi oppure, al contrario, troppo protettivi e indulgenti. Modulare lo stile educativo non è semplice, perché richiede la capacità di adattarsi sia alle pressioni esterne sia alle caratteristiche individuali del proprio figlio. Ogni bambino è un universo a sé.

A volte la semplice emulazione di modelli disfunzionali dei genitori può indurre nel figlio condotte devianti. La chiave è proprio il rinforzo, inteso come la capacità del genitore di restituire al figlio l’immagine di sé come individuo competente, capace, in grado di affrontare i compiti evolutivi. Questo processo favorisce la costruzione di una sana autonomia.

Quando, invece, un genitore non riconosce il valore del proprio figlio, può generare in lui frustrazione, rabbia o sentimenti di impotenza, che spesso si traducono in reazioni disfunzionali, come scoppi d’ira o, all’opposto, chiusura e immobilismo.

Sostenere il bambino, validare le sue azioni e guidarlo nella riflessione sugli errori, senza sostituirsi a lui, aiuta a sviluppare una solida identità, una buona capacità di problem solving e la competenza nel prevedere le conseguenze delle proprie azioni.

Quali comportamenti i genitori devono evitare?

In alcuni casi, poi, la disfunzionalità non riguarda solo l'individuo, ma la coppia genitoriale: stili educativi divergenti possono generare confusione e comportamenti disorganizzati nel bambino. Coerenza e chiarezza nei messaggi educativi, già dalla prima infanzia, sono fondamentali per fornire modelli stabili e positivi.

Tutto questo contribuisce a prevenire problematiche emotive e comportamentali che, se non intercettate e trattate in tempo, possono degenerare in comportamenti autolesivi o lesivi verso gli altri.

Tuttavia, se tutto questo non avviene, e il bambino cresce in contesti destabilizzanti, troppo invischiati o, al contrario, freddi, disimpegnati o persino violenti, allora aumentare il controllo o adottare misure correttive sull’agito servirà a poco. In questi casi, non è il comportamento da modificare, ma il sistema in cui quel comportamento si è formato, e ciò richiede spesso interventi più profondi, strutturati e talvolta invasivi, volti a ricostruire le fondamenta emotive e relazionali che non sono mai state adeguatamente poste.

Oggi si parla giustamente dell’importanza di un’educazione affettiva nelle scuole, ma ancor più urgente sarebbe formare i futuri genitori, offrendo loro strumenti concreti e servizi di supporto alla genitorialità. Perché se è vero che la scuola è il luogo in cui si strutturano le relazioni sociali, la famiglia è il primo contenitore affettivo, lo spazio in cui si pongono le basi del riconoscimento dell’altro e dello sviluppo della propria identità.

I fatti di cronaca dovrebbero spingerci con forza a cercare soluzioni preventive, che aiutino i caregiver ad applicare modelli educativi sani e, allo stesso tempo, a sviluppare la capacità di intercettare segnali precoci di disagio nei figli. Perché se questi segnali non vengono riconosciuti, possono evolvere in azioni imprevedibili, con conseguenze gravi non solo per il singolo, ma per l’intera collettività.

Nei nostri figli si può nascondere un killer? 

È una domanda scomoda, dolorosa, quasi impossibile da pronunciare a voce alta. Ma è necessaria.

L’analisi del comportamento ha da sempre messo in luce la duplice natura dell’essere umano. Come affermava Freud, dentro ognuno di noi convivono l’istinto di vita (Eros) e l’istinto di morte (Thanatos), due spinte opposte: una creativa, costruttiva, l’altra distruttiva e autodistruttiva. A questo si affianca il pensiero di Jung, che con il concetto di ombra ha descritto quella parte della psiche che racchiude le pulsioni, la rabbia, le fragilità e i desideri inconfessabili che spesso rifiutiamo o ignoriamo.

L’essere umano, quindi, è abitato da molteplici aspetti, sia buoni che cattivi, ma è anche dotato di una straordinaria risorsa: l’autodeterminazione, ovvero la capacità di scegliere come agire, che direzione dare alle proprie spinte interiori.

Possiamo allora rispondere a quella domanda con una riflessione: l’ombra non è pericolosa di per sé. Diventa pericolosa quando il contesto non è in grado di fornire contenimento, guida, significato. Quando non viene riconosciuta né integrata, ma repressa, negata o proiettata sugli altri.

Quanto l'istinto può superare la ragione?

Un giovane che cresce senza imparare a conoscere e accogliere le proprie parti “oscure” rischia di agire quelle energie in modo disfunzionale e devastante. È così che l’istinto distruttivo prende il sopravvento, travolge la coscienza e spinge verso l’agito violento. Questo rischio aumenta quando si cresce in ambienti familiari segnati da maltrattamenti, trascuratezza o violenza, diretta o assistita. In quei contesti, spesso, l’unico modello di gestione del conflitto appreso è proprio la violenza.

Al contrario, un giovane che ha potuto esprimere le proprie emozioni, che è stato aiutato a comprenderle e integrarle con la coscienza e il pensiero critico, impara a regolare i propri impulsi, anche nelle situazioni più critiche.

Dunque, nessuno nasce killer. A meno che non vi siano patologie neurologiche specifiche, come lesioni alla corteccia prefrontale associate a deficit empatici, la violenza si apprende, si struttura in base alle esperienze relazionali, al contesto educativo, alla qualità delle cure ricevute. E anche nei casi di compromissione organica, esistono strumenti di psicoeducazione comportamentale che permettono di modulare le condotte in funzione delle richieste sociali.

Lei come genitore come si vede?

Profondamente turbato dalla crescente frequenza di episodi di cronaca che coinvolgono ragazzi giovanissimi. Sembra difficile immaginare che un figlio con un funzionamento neurotipico possa, improvvisamente e senza segnali, trasformarsi in un killer. Piuttosto, dovremmo domandarci quali segnali abbiamo perso, quali elementi ci sono sfuggiti, quale malessere silenzioso è rimasto sepolto e non riconosciuto. Un malessere che, talvolta, anche ai genitori più presenti e attenti può sfuggire, perché alcuni ragazzi diventano abili nel nasconderlo, nel mascherarlo, nel dissimularlo.

Ed è qui che torna la necessità, oggi più che mai urgente, di promuovere una cultura dell’educazione emotiva sin dai primi anni di vita. Non solo tra i bambini, con percorsi di alfabetizzazione emotiva già dalla scuola dell’infanzia, ma anche tra i neogenitori, che vanno sostenuti nel difficile compito di educare alla consapevolezza, all’ascolto e al riconoscimento dell’altro.

Solo così possiamo costruire futuri adulti in grado di scegliere la strada della vita, e non quella della distruzione.

I giovani non sono più abituati al rifiuto? Perché i genitori non sanno più dire di no? E la scuola?

Non credo che sia corretto demonizzare i genitori tout court.

Così come non si nasce killer, non si nasce nemmeno genitori. Genitore si diventa, e quando nasce un figlio, nessuno riceve il "kit del perfetto genitore".

Il ruolo genitoriale è diventato sempre più complesso, anche a causa dei profondi cambiamenti sociali. In pochissimo tempo siamo passati da famiglie tradizionali a struttura patriarcale a famiglie allargate, fluide, con ruoli sempre meno definiti. Una volta c’erano mansioni distinte: il padre lavorava, la madre si occupava della casa e dei figli. Oggi, entrambi i genitori sono spesso chiamati a conciliare lavoro, educazione, gestione domestica ed emotiva della famiglia.

Questo porta con sé un carico notevole di fatica fisica e mentale. I genitori devono ricoprire ruoli molteplici: professionisti, educatori, caregiver, e anche figure di riferimento emotivo. Dall’altra parte ci sono i figli, che vivono in un mondo frenetico, fatto di continui stimoli, aspettative elevate e pressioni sociali, sia scolastiche che digitali.

I genitori non dedicano più tempo ai figli?

Sopraffatti dalla mancanza di tempo e dalle richieste continue, spesso finiscono per acconsentire ai desideri dei figli, non solo per stanchezza, ma anche per cercare di mantenere una connessione, per non "perdere il rapporto" o per sostituire la propria assenza con oggetti o concessioni. Viviamo in un’epoca in cui i desideri dei figli si moltiplicano, anche a causa della narrazione social e consumistica, e spesso diventano compensazioni di vuoti più profondi.

Cosa accade, però, se questa dinamica sfugge di mano? Si rischia di alimentare una bassa tolleranza alla frustrazione. Non si tratta solo di dire "no" o "sì": ciò che conta è l’equilibrio, la coerenza educativa, la presenza affettiva. Se tutto arriva in modo immediato, se non c’è mai tempo per l’attesa, per la fatica, per il desiderio, i figli non imparano a modulare le emozioni, a sopportare i tempi lunghi, a confrontarsi con il fallimento.

Oggi molti giovani non sono abituati alla lentezza, non sanno più attendere, e non sanno gestire le emozioni negative, proprio perché tutto intorno a loro è pensato per essere veloce, gratificante, senza pause. Ma non sono solo i “no” a generare frustrazione, quanto la mancanza di un sistema educativo che aiuti a dare significato a quel no, a costruire strumenti interiori per affrontare i limiti, le rinunce, i desideri non esauditi.

La scuola, in questo, può e deve avere un ruolo fondamentale. Ma non può essere lasciata sola, così come i genitori non possono essere lasciati soli. Servono alleanze educative, spazi di confronto, formazione, dialogo tra scuola, famiglia e società, per accompagnare i ragazzi a sviluppare competenze emotive e relazionali adeguate.

Cosa porta alla furia omicida? E cosa c’entra la “frantumazione” della donna idealizzata?

La furia omicida può essere descritta come un agito esplosivo, improvviso ma non sempre imprevedibile, che ha come scopo l'annientamento dell'altro. Nei casi di femminicidio, questa esplosione di violenza avviene spesso nel momento in cui l'uomo viene lasciato o percepisce una perdita di controllo sulla partner. È in quel momento che si frantuma l’immagine idealizzata della donna, costruita nella sua mente come figura perfetta, angelica, incondizionatamente presente e devota.

Questa immagine ha radici culturali profonde, tramandate anche attraverso la letteratura, il cinema, e i modelli familiari, che dipingono la donna come colei che ama, accudisce, e non abbandona mai. Ma si tratta di un’immagine fittizia, che non tiene conto della soggettività e dell’autonomia della donna reale.

In fase di idealizzazione, l’uomo proietta sulla partner qualità irrealistiche, spesso inconsapevolmente, utilizzandola per confermare il proprio valore personale. In psicologia questo meccanismo è spesso legato a una fragilità narcisistica: l’altro non è più visto come una persona a sé, ma come uno “specchio” che deve riflettere un’immagine grandiosa di sé stesso. Quando quello specchio si rompe — cioè quando la donna si afferma, pone limiti, rifiuta — l’uomo non riesce a tollerare la perdita del controllo e reagisce con rabbia distruttiva.

La dinamica che si instaura in molti casi è quella del ciclo della violenza: si alternano fasi di idealizzazione (fase “luna di miele”), in cui la donna si sente amata e importante, a fasi di svalutazione, dove emergono critiche, aggressioni verbali e fisiche, colpevolizzazioni. Dopo l’agito violento, spesso l’uomo torna a chiedere perdono, promette un cambiamento, e la relazione continua, intrappolando la vittima in una spirale confusiva e paralizzante.

Quando però la donna trova il coraggio di uscire da questa dinamica e decide di chiudere la relazione, allora per l’uomo può avvenire un crollo psichico: è la cosiddetta frantumazione dell’immagine idealizzata, un evento traumatico che può portare alla furia omicida, specie se il soggetto presenta fragilità psichiche, dipendenza affettiva, immaturità emotiva, disturbi di personalità oppure si trova in uno stato di intossicazione da alcool e sostanze.

Oggi esistono strumenti giudiziari importanti per la tutela delle donne vittime di maltrattamenti, come:

  • la procedibilità d’ufficio per reati di violenza domestica
  • le misure restrittive come il divieto di avvicinamento
  • l’ammonimento del questore

Tuttavia, come dimostrano i casi di Ilaria e Sara, non sempre i segnali di pericolo sono chiari, soprattutto quando non si è di fronte a violenza fisica esplicita ma a forme più sottili di controllo, ossessione o dipendenza.

Per questo è fondamentale rafforzare la cultura della prevenzione, imparando a riconoscere i segnali precoci di pericolo anche nei comportamenti che spesso vengono minimizzati o scambiati per “gesti d’amore”.

Si sente parlare di “fragilità emotiva”. Da cosa è dovuta?

Come descritto, la fragilità emotiva può essere determinata da molteplici fattori, ma probabilmente quello più rilevante è la scarsa autostima e l'incapacità di costruire relazioni sane e resistenti ai condizionamenti esterni.

Quando una persona non ha un’identità matura, forte e strutturata, è inevitabilmente più vulnerabile al giudizio altrui, alle pressioni sociali e all’approvazione esterna. Per far fronte a questa insicurezza, può sviluppare un falso Sé, una maschera perfetta che nasconde le fragilità reali e cerca di veicolare all’esterno un’immagine idealizzata, controllata e inattaccabile.

Ma questo equilibrio è estremamente precario. Quando una persona fragile emotivamente entra in una relazione, tutto ruota intorno alla percezione dell’accettazione da parte dell’altro. Il giudizio, anche implicito, viene vissuto in modo amplificato. Un rifiuto, anche minimo, non è più solo un fallimento relazionale, ma viene vissuto come un attacco diretto al proprio valore personale, come un “non essere riconosciuti”, una minaccia all’intera costruzione identitaria.

A quel punto, la maschera crolla. E se dietro di essa non c’è un’identità solida a sostenere il colpo, l’intero sistema psichico rischia il collasso. L’altro, percepito come causa del crollo, diventa il nemico da abbattere. Per “sopravvivere” psicologicamente, la persona fragile può arrivare a squalificare o persino annientare simbolicamente (o concretamente) l’altro, perché senza il suo sguardo, la propria immagine non esiste più. È questo il meccanismo che può sfociare in comportamenti distruttivi.

La fragilità emotiva porta spesso a relazioni dipendenti e controllanti, dominate dall’angoscia di abbandono. L’idea di perdere l’altro è intollerabile, perché si porta dietro il senso di vuoto, l’insignificanza, la perdita del Sé.

Tutto ciò ha origine, come abbiamo visto, da una mancata validazione emotiva nelle relazioni primarie, da legami di attaccamento insicuri, da critiche costanti, o dall’assenza di risonanza emotiva. Quando il bambino non si sente visto, accolto, valorizzato, può crescere con una profonda ferita narcisistica che da adulto si traduce in relazioni tossiche, chiuse, isolate, morbose, dove l’altro non è più un individuo con bisogni propri, ma una figura funzionale alla propria autoconservazione psichica.

La donna è ancora oggettivizzata. Perché?

Purtroppo sì, la donna viene ancora frequentemente oggettivizzata. Nonostante gli sforzi delle istituzioni per equiparare i diritti delle donne a quelli degli uomini, viviamo ancora in una cultura profondamente segnata da un retaggio patriarcale. Un sistema culturale che, in molti casi, continua a considerare la donna non come un soggetto pensante, autonomo e capace di decidere, ma come un oggetto che deve corrispondere a determinati canoni estetici, un corpo da giudicare, controllare o possedere.

Certo, oggi molte donne ricoprono ruoli istituzionali, politici e professionali di altissimo livello, ma nonostante questo continuano a essere percepite, nell’immaginario collettivo, come outsider, eccezioni alla regola. Come se il loro successo non fosse ancora del tutto “legittimo”, come se dovessero continuamente dimostrare di meritare il posto che occupano, a differenza dei colleghi uomini che spesso vengono accolti senza bisogno di conferme.

Eppure, qualcosa sta cambiando, soprattutto nelle nuove generazioni. Le giovani donne – in particolare le cosiddette influencer – veicolano da un lato immagini stereotipate e aderenti ai vecchi canoni di bellezza, ma dall’altro iniziano a rappresentarsi come soggetti attivi, produttivi, capaci di autodeterminarsi e di influenzare il cambiamento sociale. È un’immagine ambivalente, che da un lato rafforza alcuni stereotipi, ma dall’altro rompe il silenzio e prova a ridefinire il ruolo della donna nella società.

Il problema, però, è che questa immagine viene spesso distorta e fraintesa da una parte della cultura ancora fortemente maschilista, che fatica a riconoscere la donna come soggetto autonomo e la riduce nuovamente a oggetto del desiderio, svalutandone la complessità. La radice è profondamente culturale: anche se oggi le donne inviano messaggi forti e chiari sulla propria identità, ancora troppo spesso questi messaggi vengono ignorati o manipolati.

Mi ha molto colpito, in questo senso, la manifestazione per Ilaria e Sara alla Sapienza, in cui le studentesse hanno urlato con forza:

"Abbiamo bisogno di investimenti veri sulla prevenzione e sul contrasto alla violenza di genere. Vogliamo l’educazione all’affettività all’interno delle scuole e delle università."

Questo grido mostra chiaramente che le nuove generazioni sentono il pericolo, vivono la paura, ma non la subiscono in silenzio. Protestano, parlano, rivendicano. E questa è forse la più grande differenza rispetto al passato.

Quindi, alla domanda si può rispondere che sì, la donna è ancora oggettivizzata, ma stanno emergendo voci potenti che rifiutano questa logica. L’aspetto culturale è ancora fortemente orientato al maschile, ma stiamo assistendo a un cambiamento importante. Ci vorrà ancora tempo, probabilmente qualche passaggio generazionale, ma il processo è in corso.

«Ti mando Turetta». Frasi choc che in alcuni casi sono stati registrati nelle scuole. Il killer come modello? Perché?

Non è infrequente e di recente le cronache lo hanno riportato, che il nome di un Killer venga evocato come punto di riferimento da parte di giovani coinvolti in episodi di violenza, quasi fosse un modello da emulare. Questo è un segnale allarmante che ci impone di riflettere profondamente su ciò che succede quando la fragilità identitaria si intreccia con una rappresentazione mediatica distorta della violenza.

Quando una persona non ha una struttura interna solida e fatica a definire se stessa attraverso relazioni sane o esperienze positive, finisce spesso per cercare modelli esterni a cui aggrapparsi. E se questi modelli sono negativi o distruttivi, il rischio è che vengano idealizzati proprio perché percepiti come forti, visibili, potenti. Nel caso di Turetta, c’è chi si è identificato in lui come simbolo del ragazzo rifiutato, come se la violenza fosse una forma di rivincita contro il rifiuto. Ma questa non è forza: è il sintomo di una fragilità profonda, di una incapacità di elaborare la frustrazione, la perdita, il fallimento.

Un altro elemento che non possiamo sottovalutare è il ruolo della visibilità. Viviamo in un’epoca in cui apparire, essere visti, contare qualcosa per gli altri sembra più importante che esserlo davvero. E per chi si sente invisibile, marginale, escluso, anche un gesto estremo può sembrare – in modo del tutto distorto – una possibilità di emergere, di lasciare un segno.

C’è poi chi resta affascinato dal controllo estremo che l’atto violento sembra offrire. In personalità disturbate, l’idea di poter decidere della vita di un’altra persona viene vissuta come una dimostrazione assoluta di potere. Quando tutto nella propria vita sembra sfuggire, quel gesto diventa un modo malato di affermarsi.

E infine, c’è il modo in cui questi fatti vengono raccontati. Se la narrazione mediatica si concentra troppo sull’autore del gesto, descrivendone nei dettagli la quotidianità, i sentimenti, il passato, il rischio è che la vittima scompaia e l’aggressore diventi il centro della storia. Questo può generare un’identificazione sbagliata, specie in chi non ha gli strumenti per distinguere tra realtà e mito, tra dolore e spettacolo.

Un episodio molto grave si è verificato ad Aosta, dove un ragazzo di venti anni ha minacciato la sua ex con le parole: “Ti faccio fare la fine di quella là” (riferendosi a Giulia Cecchettin). In quel momento, il riferimento a una vittima è stato usato come strumento di minaccia e dominio. Questo ci dice quanto una vicenda drammatica possa venire piegata fino a diventare un’arma nelle mani sbagliate.

Ancora più inquietante è ciò che accade online. Su alcune piattaforme sono stati creati chatbot che imitano sia Giulia che Filippo, con dialoghi fittizi e contenuti inquietanti. Anche qui, la violenza viene banalizzata, svuotata del suo dramma, e rischia di trasformarsi in spettacolo.

Alla fine, tutto ci riporta allo stesso nodo: l’assenza di un’educazione emotiva e relazionale capace di fornire strumenti per affrontare i conflitti, gestire le emozioni e riconoscere il valore dell’altro. Serve costruire una cultura che non lasci spazio all’identificazione con modelli pericolosi, e che metta al centro la cura delle relazioni, la responsabilità affettiva e l’empatia. Diventa inoltre sempre più urgente pensare a regole precise che disciplinino l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, soprattutto quando entra in gioco nella vita digitale delle persone. Senza una guida chiara, queste tecnologie rischiano di diventare terreno fertile per nuove forme di violenza, più sottili ma altrettanto dannose, come la cyberviolenza. Non si tratta solo di limitare, ma di prevenire: creare un contesto sicuro in cui l’uso dell’AI non possa mai trasformarsi in uno strumento di sopraffazione o manipolazione. Solo così si può impedire che il dolore venga trasformato in potere, e la violenza in linguaggio.

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