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Quando da Doha è arrivata la notizia dell’accordo, l’emozione è esplosa ovunque. Nelle strade di Israele, nelle vie di Gaza e dei campi profughi della Striscia, nei corridoi della Casa Bianca, nelle stanze di Mar-a-Lago fino alle cancellerie di tutta Europa. Dopo 466 giorni di guerra, per Hamas e Israele è il momento di far tacere le armi. Il momento di vedere gli ostaggi finalmente liberi, di riavere i resti di coloro che sono morti durante la prigionia, di aprire le porte a centinaia di camion carichi di aiuti umanitari della Striscia e di studiare i dettagli del futuro di Gaza mentre vengono rilasciati migliaia di detenuti palestinesi.
I mediatori hanno lavorato per mesi, accelerando soprattutto nelle ultime settimane. Una vera e propria corsa contro il tempo, tra ottimismo contenuto a forza, brusche frenate, accuse reciproche di volere far deragliare il negoziato e proposte dell’ultimo minuto. Ma il round di colloqui di Doha, questa volta, è apparso subito quello decisivo. Il pressing degli Stati Uniti è diventato asfissiante. Joe Biden e Donald Trump hanno ingaggiato un vero e proprio duello per rivendicare la responsabilità dell’accordo. Ma fino all’ultimo, nessuno ha osato dire che l’intesa era ormai cosa fatta. Lo stesso Benjamin Netanyahu ha evitato anche ieri pomeriggio di dare notizie, dicendo che i dettagli sarebbero stati da limare nei giorni successivi. E mentre le indiscrezioni iniziavano a trapelare tra i media israeliani, arabi e americani, a spazzare via ogni dubbio ci ha pensato Trump, che attraverso il suo social preferito, Truth, ha annunciato come primo leader mondiale la firma dell’accordo. Un patto sui cui il tycoon ha voluto mettere da subito il cappello, anche prima dell’annuncio ufficiale di Mohammed al-Tani e del presidente Joe Biden.
LE FASI
L’accordo si articola in tre fasi. Due di 42 giorni, mentre la terza deve ancora essere definita. Nelle prime settimane, è previsto il rilascio dei primi 33 ostaggi. I primi tre saranno liberati già nel primo giorno di entrata in vigore dell’accordo, domenica prossima. Poi, altri quattro rapiti saranno rilasciati la settimana successiva, altri tre la settimana dopo fino ad arrivare a marzo, quando durante l’ultimo dei 42 giorni di tregua sarà rilasciato un gruppo di 14 persone. In cambio, Hamas otterrà non solo il cessate il fuoco a Gaza e più di 600 camion carichi di aiuti umanitari al giorno, ma anche migliaia di detenuti palestinesi. Sul rilascio dei prigionieri, le cifre non sono ancora state confermate. Secondo le indiscrezioni potrebbero essere liberati fino a 1.650 detenuti, tra cui 190 condannati a oltre 15 anni di carcere. Tra di loro, 250 rappresentano il prezzo per la liberazione delle cinque donne soldato rapite da Hamas. Chi ha ucciso israeliani non sarà rilasciato in Cisgiordania. Mentre Israele ha confermato il veto sul rilascio di Marwan Barghouti, il comandante di Fatah arrestato nella Seconda Intifada e la cui liberazione è stata richiesta a ogni costo da Hamas. I negoziati sulla seconda e sulla terza fase inizieranno invece dal sedicesimo giorno dall’inizio dell’accordo. In questo secondo periodo, che durerà sempre 42 giorni, è prevista la liberazione di tutti gli ostaggi rimasti in vita e anche il graduale (ma non completo) ritiro delle truppe israeliane. Mentre la terza fase dovrebbe essere caratterizzata da tre questioni-chiave: la restituzione dei corpi degli ostaggi morti in prigionia, il ritiro dell’Idf da Gaza e la ricostruzione della Striscia insieme alla nascita di una nuova autorità civile.
LA RIUNIONE
Il governo israeliano è pronto, in attesa che questa mattina si riunisce il gabinetto di sicurezza per dare il via libera definitivo. La partita di Netanyahu è tutt’altro che semplice, visto che dopo il “no” del ministro della Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, è arrivato nella serata di ieri anche il rifiuto dell’altro leader di destra, il ministro Bezalel Smotrich. L’opposizione ha garantito al premier una rete di sicurezza di voti, in modo da evitare l’impasse con gli alleati ribelli. Gli ospedali che dovranno accogliere i primi ostaggi sono stati messi in preallarme. Il presidente Isaac Herzog ha parlato con la Croce Rossa per discutere i dettagli dei vari passaggi. Mentre l’esercito israeliano si sta preparando a ricevere i primi rapiti con un’operazione che è stata già battezzata “Ali della Libertà”. In totale, nella prima fase, verranno rilasciati 33 ostaggi, tutti rigorosamente vivi. Una questione su cui il governo israeliano non ha voluto cedere a compromessi. Si tratta di bambini, donne (anche militari), ultracinquantenni, uomini malati e feriti. E i primi tre saranno liberati domenica, il giorno in cui entrerà in vigore l’accordo.
L’ELENCO
Un giorno fondamentale, perché potrebbe rivelare anche una delle verità che angoscia di più Israele da quindici mesi, quella del destino della famiglia Bibas. Molti credono che la scelta su chi liberare per primi possa ricadere proprio su Shiri, Kfir e Ariel Bibas, la mamma e i due figli piccoli rapiti il 7 ottobre e dati per morti da Hamas. Israele non ha mai confermato le loro morti, accusando i miliziani palestinesi di usare il loro decesso come un’arma di terrorismo psicologico. E forse domenica si saprà se quello di Hamas è stato un macabro bluff oppure una terribile verità.
Anche per la milizia palestinese questo è un momento fondamentale, forse decisivo anche per il suo stesso destino. Dopo l’accordo siglato a Doha, il capo negoziatore di Hamas, Khalil al-Hayya, ha lanciato un monito verso tutta la comunità palestinese e in particolare verso la popolazione di Gaza. «A nome di tutte le vittime, di ogni goccia di sangue versata e di ogni lacrima di dolore e oppressione, diciamo: non dimenticheremo e non perdoneremo» ha detto il funzionario del gruppo. Ma la partita interna ad Hamas non è affatto finita. Per arrivare alla firma sull’accordo con Israele, la leadership a Doha e il team negoziale hanno dovuto ricevere il via libera da parte di Mohammed Sinwar, il fratello di Yahya, che ormai è il leader de facto della Striscia di Gaza. Qatar, Egitto e Stati Uniti si sono fatti garanti della tenuta della tregua. Ma resta il nodo irrisolto del futuro della Striscia e della presenza militare israeliana. La popolazione è autorizzata a rientrare gradualmente a nord, ma mentre si pensa a un progressivo ritiro dal Corridoio di Netzarim, quello che divide in due la Striscia dal Mediterraneo al confine con Israele, sull’altro corridoio, quello Filadelfia, il portavoce di Netanyahu ha parlato chiaro: “Il primo ministro non ha rinunciato ad un millimetro del controllo israeliano”.