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Il 14 febbraio 1980, nella chiesa di San Roberto di Bellarmino in Roma, davanti alle autorità dello Stato e alla folla commossa di quei ripetuti e atroci funerali di terrorismo, un ragazzo di 25 anni ha preso il microfono e pronunciato una preghiera che non si era mai udita: «Preghiamo per quelli che oggi continuano la battaglia per la democrazia… e preghiamo anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta». Due giorni prima Vittorio Bachelet, 54 anni, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, era stato ucciso all’università. Trentadue colpi di mitraglietta rivendicati dalle Brigate rosse, contro un uomo inerme, un giurista cattolico, impegnato e sempre sorridente. Quel ragazzo che si chiamava Giovanni, ha ora settant’anni, ha trascorso la vita a lavorare e insegnare fisica, in America e in Italia.
Professor Bachelet, quarantacinque anni dopo che sentimento prova a rivivere quei momenti?
«Sono commosso perché sto scoprendo in questi giorni che tanti ancora si ricordano e vogliono commemorare mio papà. Quando avevo vent’anni la seconda guerra mondiale sembrava una cosa della preistoria, ma ripensandoci era molto più vicina di quanto non sia la stagione del terrorismo ai ragazzi di oggi. Quindi c’è una memoria lunga di cui io e noi della famiglia siamo molto grati. In quegli anni lì non si sapeva come sarebbe finita».
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Numerosi ex terroristi hanno poi rivelato che furono molto colpiti dalla sua preghiera. Pensa di aver contribuito alla fine della lotta armata?
«Io all’epoca lavoravo negli Stati Uniti, nel New Jersey, nei laboratori della ATT. Sono tornato per tre settimane in Italia solo per quell’occasione. Quindi non ho seguito direttamente il seguito se non nel racconto di mia sorella e di mio zio prete che si era scatenato nella cura delle pecorelle smarrite. Effettivamente un gruppo di detenuti gli avevano scritto dopo quella preghiera. Può darsi che abbiamo contribuito, ma non siamo stati gli unici, ricordo una atteggiamento simile della vedova di Walter Tobagi e dell’ingegner Taliercio».
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La fede da sola è sufficiente per spiegare un gesto così difficile come la preghiera per gli assassini?
«La cosa che ritenevamo più importante era di non cedere sui principi costituzionali. C’era allora un’onda di opinione pubblica a favore del ritorno alla pena di morte, l’aveva chiesta persino una bravissima persona e un protagonista della Resistenza come Leo Valiani. Ci sembrava innanzitutto di dover confermare la fedeltà alla Costituzione e a persone come mio padre o Aldo Moro che si erano battute per far sì che la pena fosse definita come una rieducazione e non una vendetta».
E poi al processo non vi siete costituiti come parte civile. Perché?
«Lo abbiamo deciso con mia madre e mia sorella per confermare nei fatti quanto detto a parole nella preghiera. Ma tenendo ben chiara la distinzione tra il perdono cristiano e il dovere di sconfiggere il terrorismo criminale. Molti parlavano allora di riconciliazione e noi non eravamo d’accordo perché ci si riconcilia dopo una guerra civile, ma mio padre non aveva voluto la scorta proprio per affermare che non era in corso nessuna guerra civile. C’erano degli assassini che credevano di fare i partigiani, ma non era così. Un conto era lo zio che faceva il prete, un altro conto eravamo noi».
E lei se ne è mai occupato direttamente?
«Per la prima volta nel 2008, da deputato del Pd, sollecitato da famiglie delle vittime e da ex brigatisti, ho scoperto che - per fortuna! - l’ergastolo non è tale se non in pochissimi casi, e dopo 26 anni di buona condotta si riconquista la libertà. Nel 2008 ne avevano già goduto in tanti grazie al disegno costituzionale di Aldo Moro e al quale mio padre aveva contribuito. Ma abbiamo anche scoperto che c’era una grossa disparità tra i condannati perché molti parenti delle vittime rifiutavano di incontrarli facendo venire meno il requisito di accertamento del “completo ravvedimento” che deve essere compiuto dal giudice di sorveglianza».
E ha trovato una soluzione?
«Con Sabrina Rossa, figlia di Guido, e Olga d’Antona, vedova di Massimo, abbiamo provato a modificare la legge ma la proposta non fu mai discussa. E allora abbiamo scritto ai giudici interessati per parlare noi con i detenuti e così ne abbiamo fatti uscire tre o quattro, che poi erano gli ultimi. Sono rimasti dentro solo quelli che non volevano per principio aderire a questa possibilità di salvezza».
Ha ancora rapporti con ex brigatisti?
«Ogni tanto mi scambio gli auguri con qualcuno di questi che mio zio chiamava “i miei amici” e che ho aiutato ad uscire. Lo ritengo il migliore successo, se vuole la migliore vendetta: dimostrare che non eravamo uno Stato nazista, ma uno Stato democratico, sia pure con moltissime magagne. Due anni dopo la morte di mio padre, abbiamo scoperto la P2 che manovrava parecchio contro lo Stato. Ma nonostante questo, il fatto che uno che compie un delitto sia giudicato e abbia poi una nuova possibilità di vita è una cosa che considero un successo di mio padre e di altri. Molti terroristi che allora avevano più o meno la mia età sono usciti a cinquant’anni e hanno avuto una seconda possibilità che mio padre non ha avuto. È la differenza tra una pur imperfetta democrazia e la pena di morte inflitta a una persona disarmata».