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Certo, ci sono gli incentivi fiscali, perché una delle prime motivazioni che spingono tanti laureati a cercare lavoro all’estero è rappresentata dalla certezza di ottenere stipendi più alti, ma da soli forse non bastano. Tant’è che negli ultimi anni, passata una fase di stanca dovuta al Covid, la fuga dei cervelli è ripartita di slancio ed il saldo tra uscite e rientri non solo è rimasto negativo ma si è ampliato. Significati i dati riportati nell’ultimo rapporto di Almalaurea in base al quale tra quelli che già se ne sono andati ben 7 su 10 non hanno alcuna intenzione di tornare. Complessivamente, infatti, il 38,4% degli occupati all’estero ritiene questo scenario “molto improbabile” (+1,2 punti rispetto all’analoga rilevazione del 2022) e un ulteriore 30,5% (-1,3 punti) “poco probabile”, quanto meno nell’arco dei prossimi cinque anni. Di contro solo il 15,1% (valore peraltro in calo di 1,7 punti nell’ultimo anno) ritiene “possibile” il rientro nel nostro Paese, mentre un altro 14,7% non si esprime.
Tra i laureati di secondo livello il lavoro all’estero riguarda il 4% degli occupati a un anno dalla laurea e il 5,5% degli occupati a cinque anni, percentuali che per arrivano anche a raddoppiare per alcuni ambiti disciplinari: 8,2% tra gli occupati a un anno e 11,7% tra quelli a cinque anni per i laureati dei gruppi scientifici; 8,2% e 11,3%, rispettivamente, nel campo linguistico; 7,9% e 13,7% per informatica e Itc,9 a seguire i laureati del gruppo politico-sociale e comunicazione (5,9% e 7,7%) e quelli che hanno scelto ingegneria industriale e dell’informazione (5,8% e 10,1%). In media lavorare all’estero assicura retribuzioni notevolmente superiori a quelle degli occupati in Italia: a un anno dalla laurea, i laureati di secondo livello espatriati percepiscono 2.174 euro mensili netti (il 56,1% in più rispetto a chi è rimasto in Italia), 2.710 euro a cinque anni dalla laurea, ovvero il 58,7% in più.
Quanto ai rientri è sempre la convenienza economica, associata magari ad esigenze familiari, a fare la differenza. Secondo le stime di Moving2Italy i redditi medi di coloro che rientrano in Italia sono tra 3,6 e 5,2 volte superiori alle medie italiane e questo spiega bene l’incidenza che uno sconto più o meno forte sulle tasse può avere su queste tipo di scelte: un lavoratore dipendente “impatriato”, infatti, all’estero guadagnava in media 86.293 euro contro i 23.820 della media italiana; ancor di più un lavoratore autonomo a partita Iva, “professionisti altamente specializzati con competenze uniche sul mercato”, che in media fuori confine guadagnava 135.891 euro contro una media nazionale di 26.297 euro.
Secondo l’ultimo report dell’Istat sulle migrazioni interne ed internazionali della popolazione che risiede in Italia nel complesso tra il 2014 ed il 2023 sono stati ben 1 milione e 981 gli espatri a fronte di poco più di 515 mila rimpatri.
Oltre un terzo (352mila) aveva tra i 25 e i 34 anni d’età e di questi poco più di un terzo (37,7%, in tutto oltre 132mila persone) era in possesso della laurea al momento della partenza. Di contro, nello stesso arco di tempo, i rimpatri di giovani sono stati circa 104mila, di cui oltre 45mila in possesso di laurea. «La differenza tra i rimpatri e gli espatri dei giovani laureati è costantemente negativa – segnala lo studio dell’istituto di statistica - e restituisce una perdita complessiva per l’intero periodo di oltre 87mila laureati».
Sempre le statistiche ufficiali ci dicono poi che dopo il calo del 2021, nel 2022 si è verificata una significativa ripresa degli espatri di giovani laureati (18mila, +23,2% sull’anno precedente) ed è aumenta la quota dei laureati sul flusso dei giovani espatriati (uno su due è in possesso di almeno la laurea), dato questo che segnala un vero e proprio cambiamento strutturale: solo 10 anni prima, infatti, tale quota era pari a un terzo dei flussi di emigrazione giovanile. Quanto ai rientri, il loro numero si è molto ridotto scendendo a 6mila unità (-18,9%) sul 2021 determinando così un saldo migratorio negativo che si traduce in una perdita di 12mila giovani risorse qualificate.
I paesi europei sono le mete favorite dai giovani laureati. Nel 2022, per la prima volta dall’inizio del decennio, nella classifica delle destinazioni preferite la Germania (con quasi 3mila espatri di giovani laureati) sorpassa il Regno Unito (2.600) che ovviamente sconta l’effetto Brexit ed il giro di vite disposto dagli inglesi sui nuovi ingressi. Seguono la Svizzera (1.800), la Francia (1.700) e i Paesi Bassi (1.200). Tra i paesi extra-europei, al primo posto si trovano gli Stati Uniti con quasi 1.000 giovani laureati che si sono trasferiti oltre oceano.
Da almeno una quindicina d’anni l’Italia ha introdotto una serie di incentivi fiscali per arginare la fuga dei cervelli. L’ultimo intervento (però al ribasso) risale allo scorso autunno quando attraverso il decreto Anticipi il governo ha dato attuazione ad una delle tante norme previste dalla delega fiscale. Sono così stati introdotti una serie di correttivi per evitare che gli sconti finissero per avvantaggiare soprattutto le società calcistiche che attraverso questo strumento potevano tesserare campioni e campioncini stranieri godendo di un notevole sconto. Per i beneficiari è stato fissato un tetto massimo di 600 mila euro di reddito assicurando loro una riduzione delle tasse pari a 50% a patto che non risultino già residenti nel nostro Paese nei tre periodi di imposta precedenti al conseguimento della residenza che poi dovrà essere garantita per almeno 4 anni, pena pesanti sanzioni. Oltre ai calciatori, tagliati completamente fuori dalla revisione degli incentivi, anche per i soggetti con elevata specializzazione e qualificazione a cui la nuova misura è destinata il quadro è notevolmente cambiato visto che da uno sconto del 90% (70% per gli altri soggetti) si è passati al 50%. Non sono mancate ovviamente polemiche e raccolte di firme, soprattutto da parte di quelli che stavano valutando la possibilità di rientrare e magari avevano già compiuto dei passi in questo senso, come ad esempio l’acquisto di una casa con un mutuo calibrato sul maggior reddito su cui potevano contare in patria e sono rimasti in mezzo al guado, come nuovi esodati.
Ma questi incentivi funzionano oppure no? Certo, più forti sono gli sconti e più le persone sono attratte dalla possibilità rientrare in Italia, ma stando ad uno studio dell’Osservatorio conti pubblici italiani della Cattolica, remunerazione e regime fiscale sono solo uno dei tanti fattori che inducono all’espatrio. C’è la ricerca di un posto da subito più stabile, anziché la sequenza di stage e contratti a termine perlopiù sottopagati che si sentono proporre in Italia, l’insofferenza rispetto ad un sistema universitario poco trasparente e che non riconosce il merito e la scarsa fiducia sulle prospettive di carriera. Problematiche, conclude lo studio della Cattolica, «che possono essere affrontate solo attraverso una riforma del sistema universitario nazionale».