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«A Gaza è tutto distrutto, la situazione è molto grave, ma qualche segno di speranza, di vita, c’è ancora». È la prima immagine che ha fornito ieri il cardinale di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, appena tornato da una visita alla comunità cattolica della Striscia.
Il patriarca gerosolimitano, unico esponente straniero ad aver effettuato due visite a Gaza (la prima era stata a maggio), glissa anche sulle polemiche scaturite dalle parole del Papa circa un rifiuto, poi smentito dalle autorità israeliane, del suo ingresso a Gaza.
«Io alla fine sono entrato, questi sono i fatti. L’ingresso a Gaza non è mai semplice, ci sono tante questioni, di protocollo, di sicurezza e così via. È importante restare sui fatti. Sono entrato e voglio ringraziare quelli che mi hanno aiutato. Ci sono stati dei problemi, degli ostacoli, ma ci sono state anche persone che poi hanno aiutato a risolvere e questo è quello che conta».
Le polemiche non sono mancate, anche rispetto alle parole del Papa che negli ultimi tempi ha usato espressioni forti sulla guerra. Il cardinale è una figura molto apprezzata da ogni parte in Terra Santa, dove vive da 35 anni, per la sua opera anche di mediazione.
Da qui i suoi buoni uffici con i governi israeliano, giordano e palestinese. All’inizio della guerra si offrì per sostituirsi agli ostaggi. E non si tira indietro rispetto alle polemiche, dice, ci sono sempre state ma lo lasciano indifferente, non distraendolo e proseguendo per la sua strada.
«Il Papa è sempre stato molto chiaro. Forse non siamo abituati a un Papa che non usa molte sfumature. Ha chiesto la fine della guerra, di questa come di tutte le altre, chiedendo la liberazione degli ostaggi. Lo ha detto parecchie volte. E ha anche condannato in maniera chiara la reazione considerata sproporzionata. Questa guerra come tutte le guerre è molto crudele ed ha avuto e ha un impatto molto forte su tutto e su tutta la popolazione».
A Gaza, Pizzaballa ha incontrato le poche centinaia di cattolici rimasti. Che al pastore della chiesa di Gerusalemme, hanno chiesto cibo, aiuti e scuole per i figli. Segno di vita, di speranza, dice il cardinale. Per il quale è necessario anche non tanto un cambiamento di leader, ma la ricerca di una leadership. «Abbiamo bisogno di creare un contesto di un gruppo o di una squadra dove le persone con responsabilità hanno il coraggio di incontrarsi e organizzare qualcosa insieme.
E noi, come Chiesa cattolica, siamo pronti. Dopo questa crisi, dove vediamo anche la debolezza di una leadership politica e istituzionale, qualcosa di nuovo deve uscire. Non possiamo costruire un nuovo futuro con le stesse facce».
Domani è Natale. A Betlemme come l’anno scorso ci sarà la messa della vigilia, ma non le luminarie. L’amministrazione locale e quella dell’Autorità palestinese in segno di cordoglio per Gaza le hanno vietate. «Avremmo voluto qualcosa, non una festa normale ma almeno qualcosa di un po’ più vivace, anche perché la gente ha bisogno di un po’ di respiro. Speriamo sia l’ultimo Natale in tono minore perché, soprattutto Betlemme, senza Natale, è monca».
La città, come tutti i Territori, vive una profonda crisi economica che ha portato molti ad emigrare. «Questa guerra ha avuto un impatto enorme sulla popolazione sia israeliana sia palestinese. Si sa che non si tornerà com’era prima, ma non si capisce come sarà il futuro, con chi, come e quando, come finirà. Ecco, questa mancanza di certezze per il futuro, questa insicurezza un po’ su tutto, ha creato un sentimento molto pesante nella vita della popolazione.
Dobbiamo lavorare. È chiaro che noi come Chiesa cerchiamo di aiutare il più possibile, ma senza un cambiamento nella prospettiva politica sarà molto difficile avere un’influenza determinante sul sentimento della popolazione».