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Il killer della statale 11 investigatore di giorno assassino di notte

6 mesi fa 5
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«Questa notte sulla strada che va da Verona a Brescia è passato il male, perché solo il male più assoluto può essere all’origine di una così assurda, feroce, terribile tragedia». A fatica, Giancarlo Galan, allora governatore del Veneto, trova l’unica spiegazione alla carneficina della statale 11: trentacinque bossoli a raccontare un conflitto a fuoco di rara violenza. Quattro corpi a terra, tutti in fin di vita, a eccezione di chi ha sparato per primo già morto sul colpo. Questo è il male, appunto. Nient’altro.

Il male che porta al profilo del bergamasco Andrea Arrigoni, 36 anni. Da adolescente frequentava il liceo classico, greco e latino tutte le mattine, poi è partito parà in Somalia quindi si è infilato in quella doppia vita che lascia attoniti: investigatore privato di giorno, serial killer di notte. Titolare dell’agenzia Mercury di via Sant’Alessandro a Bergamo, garantiva risultati – ironia della sorte –, contro la violenza: «nella ricerca di prove e documentazioni in ambienti “ostili”– si elogiava sul sito internet –, caratterizzati da circostanze di forte animosità tra le parti; prove e documentazioni attraverso il monitoraggio di persone ritenute capaci di atteggiamenti aggressivi in grado di recare ingiusto danno alle persone e alle cose». Lui invece uccideva direttamente. Come quella notte del febbraio 2005 quando, verso le 23, aveva lasciato casa dei genitori a Orio di Sotto, in provincia di Bergamo, dopo aver cenato con il fratello e i genitori, per spingersi con la sua Panda verde 4x4 sulla statale per Verona.

Era proprio lì, la riserva di caccia del predatore: le lingue d’asfalto della provincia veronese, dove calato il buio lavoravano tante prostitute, pronte per la cattura, come l’ucraina Galyna Shafranek di 30 anni. Madre di una bimba di 12 anni, immigrata clandestina, viveva un periodo particolarmente difficile da quando aveva ricevuto il foglio di via. Si trovava bene Galyna nel nostro Paese, voleva starci e stava per ricorrere alla giustizia contro l’espatrio. Quella sera fino alle 2 sembrava tutto tranquillo, fino a quando Galyna incontrò Arrigoni e salì sulla sua Panda. Un diverbio e due colpi di pistola la lasciano in fin di vita. Cos’è accaduto davvero purtroppo non lo sapremo mai. Forse una lite sulle prestazioni, ma questo si ipotizzerà solo dopo la tragedia appena iniziata.

Quella sera, infatti, proprio sulla statale 11, una volante della questura di Verona è di pattuglia. A bordo, due poliziotti ben motivati: il capo, Davide Turazza, 36 anni, indossa la divisa dal 1994, dal giorno in cui il fratello Massimiliano, anche lui agente di polizia, era rimasto freddato dopo essersi avvicinato, fuori servizio, a un tipo sospetto fuori da una banca. Quest’ultimo, ex appartenente alla Mala del Brenta, era lì con altri malviventi per una rapina e aveva sparato a Turazza, senza dargli il tempo di reagire. Il collega di Davide è più giovane, si tratta di Giuseppe Cimarrusti, 26 anni, originario di Conversano, in Puglia, in servizio alla questura di Verona. I due notano l’utilitaria ferma nel piazzale di una concessionaria di autocaravan, si avvicinano, accendono il faro della volante. Intravedono il corpo riverso di una donna, lato passeggero. Accostano, escono dall’auto e quando si avvicinano vengono investiti da una pioggia di proiettili. Arrigoni sa sparare, gode di ottima mira: li centra entrambi, scaricando quasi l’intero caricatore della sua pistola, una Glock, arma 9x21 di fabbricazione austriaca. Dei bossoli a terra, 13 sono quelli sparati da lui, 22 quelli degli agenti. Il vicequestore Alfredo Luzi, perito balistico incaricato dal pubblico ministero Fabrizio Celenza, ricostruirà la scena del crimine, a iniziare dal colpo che ha ucciso Cimarrusti, una traiettoria dal basso verso l’alto. L’assassino era quindi a terra ferito quando ha ucciso l’agente con un proiettile che ha preso l’arteria femorale. Tutto dura un paio di minuti. I due poliziotti feriti lanciano un Sos disperato via radio alla centrale: «Conflitto a fuoco, manda l’ambulanza da “Bonometti”...», ma è inutile.

Luzi ispeziona l’abitacolo della Panda: la tappezzeria dell’auto è segnata da tracce di sangue della donna, alcuni bossoli sono rimasti nell’abitacolo. La sua valutazione è netta: Arrigoni in pratica ha agito all’improvviso per non dare il tempo agli agenti di reagire. Aveva fretta. Doveva uccidere prima che arrivassero altre volanti. Un uomo spietato lontano dalle descrizioni che faranno parenti e amici. A iniziare dal padre, dal fratello Marco, dalla fidanzata, tutti increduli e attoniti per finire ai compaesani che conoscevano bene Andrea e la sua famiglia, visto che il padre era direttore della casa di riposo e responsabile dei sessanta elementi del corpo bandistico. «Non è un killer, al poligono ci andava solo quando era necessario – spiega il fratello Marco – gli avevano appena rinnovato il porto d’armi».

Invece, Andrea è un uomo dalle molte, inquietanti, facce. C’è la politica con frasi a slogan sui social (“la politica sinistroide potrebbe essere riassunta in una breve massima: tanto peggio tanto meglio”. (…) “Quello che ha tirato un santino di marmo a Berlusconi in piazza Duomo? Un esaltato comunista”). C’è la passione per la propria professione con un’audizione, qualche anno prima, alla commissione Affari Costituzionali della Camera, come delegato dell’associazione di categoria. «Mi sia consentita – scriveva – una riflessione che potrebbe sembrare provocatoria. In realtà, prendo solo atto delle circostanze e dimostro, per l’ennesima volta, quanto sia necessario far transitare il controllo del settore investigativo sotto l’egida di Istituzioni meglio preparate allo scopo». Poi ci sono le armi: una Beretta calibro 6x35, uno storditore elettrico, oltre 500 proiettili, materiale utilizzato per confezionarli: ogive, polvere pirica e bossoli, tutto sequestrato a casa e nello studio di Arrigoni. E, infine, l’intenzione persistente di uccidere. Si scoprirà che in tutto Arrigoni deteneva quattro pistole, visto che vennero ritrovate un’altra calibro 9 e anche una 357.

Dopo qualche mese, l’indagine arriva a una svolta con la scoperta di un’altra vittima di solo 24 anni: Fatmira Giegji, albanese che si prostituiva alle porte di Milano, il cadavere nudo ritrovato nascosto in un canale, coperto di foglie, il 19 novembre 2004 a Osio di Sotto, il paese di Arrigoni. Minuta e graziosa, Fatmira è stata decapitata e mutilata di un braccio. I resti affioreranno solo qualche giorno dopo dall’acqua di un vicino torrente. Un macabro recupero con la povera testa che l’assassino aveva avvolto con strati di nastro isolante per renderla irriconoscibile. Un delitto che rischiava di rimanere irrisolto se non fosse stato per un piccolo dettaglio, un minuscolo frammento di metallo largo mezzo centimetro ritrovato nel cranio della vittima albanese: una scheggia di proiettile dello stesso materiale di uno di quelli utilizzati da Arrigoni a Verona.

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