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Il neo protezionismo che minaccia il mondo

14 ore fa 1
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Il mondo si trova oggi di fronte a un aumento delle tensioni geopolitiche e dei conflitti che non può non allarmarci. Il numero delle guerre, diminuito dopo la caduta del Muro di Berlino, è tornato a crescere negli ultimi quindici anni, raggiungendo nel 2023 il valore massimo dal secondo conflitto mondiale.

In molte regioni del mondo la guerra – spesso fratricida – è una realtà quotidiana. Le cronache ci mostrano ogni giorno immagini drammatiche, che risvegliano angosce legate alle tragiche esperienze delle due guerre mondiali. Nell’Europa occidentale, dopo lungo tempo siamo tornati a porci la questione di un cospicuo aumento della spesa per la difesa.

Ma non sono solo i conflitti a destare preoccupazione. La negazione dei bisogni primari che ancora affligge vasti strati della popolazione mondiale è anch’essa una forma di violenza. Dopo anni di rafforzamento della cooperazione internazionale, la storia sembra ora fare un passo indietro. È un mondo assai diverso dai tempi in cui ho iniziato il mio lavoro di banchiere centrale. Per molti aspetti è un mondo meno fiducioso nel futuro, per quanto anche allora non mancassero stridenti contraddizioni.

Senza pace, l’umanità non può prosperare; né può farlo l’economia. Nei Paesi coinvolti in un conflitto, la guerra danneggia gravemente i fattori essenziali per la crescita. Le ostilità distruggono il capitale produttivo – infrastrutture, macchinari e materie prime. Causano vittime soprattutto tra le nuove generazioni e piegano alle esigenze belliche le opportunità di apprendimento e la formazione di una forza lavoro qualificata. Ciò riduce la disponibilità e la qualità del «capitale umano».

Lo sforzo bellico sostiene la domanda aggregata e può stimolare l’innovazione, ma distorcendone gravemente le finalità. I benefici economici sono transitori e non eliminano la necessità di riconvertire l’economia una volta concluso il conflitto. L’alta inflazione e il crollo del Pil che spesso caratterizzano le fasi belliche sono i segni dei danni che i conflitti provocano al tessuto economico. La produzione di equipaggiamenti bellici non contribuisce ad aumentare il potenziale di crescita di un Paese. Lo sviluppo deriva dagli investimenti produttivi, non dalle armi. Non a caso, negli Anni 30, John Maynard Keynes proponeva di incrementare massicciamente la spesa pubblica per investimenti come soluzione alla depressione economica negli Stati Uniti, suggerendo al presidente Roosevelt di concentrarsi su «l’ammodernamento delle ferrovie».

D’altra parte, è sbagliato attribuire alla spesa militare il merito del progresso tecnologico. È la ricerca scientifica a stimolare l’innovazione.

La crescita economica, la prosperità e la pace sono invece strettamente connesse. Per comprendere questo legame, occorre ricordare che nelle economie moderne lo sviluppo si fonda sull’integrazione e sul commercio internazionale. La libera circolazione di merci, capitali, persone e idee facilita il trasferimento di conoscenze e tecnologie, contribuendo a unire i popoli. L’idea che l’apertura commerciale e una profonda integrazione produttiva possano garantire una pace duratura ha ispirato l’assetto economico globale che si è formato dopo la seconda guerra mondiale. Anche il progetto europeo nacque con l’intento di prevenire nuovi conflitti tra gli Stati del continente, dopo le devastazioni della prima e della seconda guerra mondiale. Come disse Robert Schuman, l’integrazione economica europea mirava a rendere la guerra «non solo impensabile, ma materialmente impossibile».

Le iniziative intraprese alimentarono la fase di globalizzazione che ha preso piede dalla metà del secolo scorso. Il rapporto tra scambi internazionali e Pil passò dal 20% nel 1950 al 34 nel 1975, per poi crescere ulteriormente nei decenni successivi, soprattutto grazie alla fine della Guerra fredda e all’ingresso di nuovi Paesi nell’economia globale, in particolare della Cina. Nel 2019, il rapporto ha raggiunto il 60%.

Nel contempo, la struttura produttiva mondiale è diventata sempre più complessa e interconnessa, per effetto della creazione di filiere produttive globali e dell’aumento degli accordi commerciali, passati da 50 nel 1990 a 300 nel 2021. Questo sistema di scambi aperto e multilaterale ha favorito lo sviluppo. La libertà di scambiare beni e servizi, investire oltre confine e condividere idee e conoscenze ha contribuito al benessere di gran parte della popolazione mondiale, aumentando le opportunità di lavoro − soprattutto per le donne − e riducendo le disuguaglianze tra Paesi ricchi e in via di sviluppo. Grazie all’accesso ai mercati internazionali, molte economie emergenti sono riuscite a crescere. Centinaia di milioni di persone sono uscite dalla povertà estrema: si stima che senza i progressi degli ultimi 35 anni, oggi vi sarebbero 2,4 miliardi di persone in più in condizioni di indigenza.

La globalizzazione ha indubbiamente prodotto benefici, ma anche effetti indesiderati, che non sempre sono stati ben compresi o affrontati in modo adeguato dai governi e dalle istituzioni internazionali. Se da un lato, l’apertura al commercio estero ha migliorato le condizioni di vita nelle economie emergenti e ridotto le disuguaglianze di reddito tra i Paesi, dall’altro ha spesso contribuito ad ampliare le disuguaglianze all’interno degli Stati. In mancanza di riforme in settori come l’istruzione, la sanità e la protezione sociale, nelle economie avanzate la globalizzazione e la delocalizzazione produttiva hanno concorso a frenare la dinamica dei redditi dei lavoratori impiegati nelle mansioni meno qualificate e peggio retribuite, ma anche di molti appartenenti alla classe media.

A livello globale, oltre 700 milioni di persone soffrono tuttora per la carenza di cibo e acqua, mentre un numero ancora maggiore non ha accesso a un’adeguata assistenza medica. Quasi 700 milioni di individui vivono senza elettricità, e 2,3 miliardi di persone utilizzano per cucinare combustibili e tecnologie dannose per la salute e inquinanti. Circa 250 milioni di bambini e ragazzi tra i 6 e i 18 anni sono esclusi dall’istruzione; le disuguaglianze di genere sono gravi. Per l’insieme di questi fattori, la globalizzazione è oggi percepita da molti, a torto o a ragione, come un progetto elitario, alimentando malcontento tra ampie fasce della popolazione.

Lo scenario mondiale sta ora evolvendo verso un sistema multipolare e frammentato, attraversato da nazionalismi e protezionismi, con la competizione tra blocchi contrapposti di Paesi che alimenta nuove tensioni geopolitiche.

Sul piano economico, queste tensioni si sono manifestate in dispute commerciali tra Stati Uniti e Cina, nella Brexit e nel crescente rifiuto da parte dei governi di consentire acquisizioni di imprese nazionali da parte di investitori stranieri. Il commercio globale si sta frammentando e viene sempre più utilizzato a fini strategici, soprattutto nella competizione per il dominio tecnologico. Nei prossimi anni, è previsto un aumento del protezionismo, alimentato dalle politiche degli Stati Uniti.

La priorità deve essere preservare un’economia mondiale aperta agli scambi internazionali. Occorre agire su più fronti. Il primo intervento riguarda il contrasto alle disuguaglianze, sia nei Paesi poveri sia in quelli avanzati. Un ulteriore ambito di intervento è il rafforzamento dei sistemi di istruzione e formazione. Va poi rafforzata la protezione sociale e garantito l’accesso a servizi sanitari efficienti. A livello internazionale, una priorità è la gestione del debito estero dei Paesi più poveri, che ha raggiunto i 1.100 miliardi di dollari. È infine fondamentale adottare politiche di sostegno allo sviluppo, anche per contrastare la spinta che le condizioni di povertà estrema esercitano sui flussi migratori, rendendoli difficilmente controllabili; investire nella gestione di questi flussi, per sostenere le economie dei Paesi di origine dei migranti e di rispondere alle conseguenze del grave declino demografico nei Paesi di destinazione; perseguire modelli di sviluppo sostenibili, che riducano le tensioni derivanti dall’accesso a risorse scarse, come acqua ed energia, spesso all’origine di conflitti.

L’economia sembra essersi globalizzata senza una «coscienza globale». La pace e la prosperità sono legate da un vincolo profondo.Intervento del Governatore della Banca d’Italia
all’Incontro “Economia e pace” a Bologna,
per la Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice

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