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È passato un secolo da quel 3 gennaio 1925. Eppure quella vicenda non smette di interrogarci e di inquietarci, soprattutto per la facilità con la quale la dittatura fascista ebbe la meglio sulla imbelle democrazia liberale e per le complicità che le spianarono la strada.
Dopo il rapimento e l’assassinio di Giacomo Matteotti, il regime fascista aveva attraversato una fase molto tormentata: le opposizioni parlamentari si erano unite e, il 27 giugno 1924, i deputati antifascisti, nell’Aula B di Montecitorio, avevano dato vita alla secessione dell’Aventino; gli industriali avevano preso le distanze: «Finché il fascismo rappresenterà l’elemento d’ordine, di quiete, di possibilità di lavoro sereno e proficuo, l’industria sarà con il governo. Ma se il fascismo dovesse rappresentare un elemento - sia pure indiretto - di disordine e dar luogo a sconvolgimenti, a manifestazioni tumultuose e a scioperi inconsulti, allora non potrebbe più trovarci consenzienti», era scritto sulla rivista della Confindustria, Industrie italiane illustrate, nel settembre del 1924; nel Paese, un’opinione pubblica sino ad allora assopita, per la prima volta sembrava volersi dissociare da Mussolini e dal suo regime.
Il Duce stesso era apparso subito scosso, rilasciando dichiarazioni imbarazzate e difensive: «Solo un mio nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto che oggi ci percuote d’orrore».
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Tutti, con il fiato sospeso, aspettavano una mossa del re, Vittorio Emanuele III, che aveva una ghiotta occasione per liberarsi della fastidiosa diarchia con il fascismo. Questa mossa non ci fu, e Mussolini, confortato dai suoi squadristi, ritrovò coraggio e determinazione. «Le opposizioni, tutte insieme - tuonò in un discorso sul Monte Amiata, già il 31 agosto 1924 - vi assicuro che sono perfettamente impotenti. Il giorno in cui uscissero dalla vociferazione molesta, per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro faremo lo strame per gli accampamenti delle camicie nere». E con questo suo atteggiamento riuscì a ricucire le contraddizioni che la crisi aveva aperto all’interno del fascismo e del blocco di potere che ne aveva decretato la vittoria nel 1922.
Per il 3 gennaio 1925 era prevista la riapertura del Parlamento dopo le vacanze natalizie. Per il Duce fu quella l’occasione per rompere gli indugi: mentre il ministro degli Interni (il nazionalista Luigi Federzoni) dava disposizioni ai prefetti per il sequestro dei fogli dell’opposizione, scelse il suo discorso alla Camera per assumersi la paternità del delitto: «Dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di quanto è avvenuto. Se il fascismo è un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!».
Dopo aver sfidato i rivali a incriminarlo dinanzi all’Alta corte di giustizia sulla base dell’articolo 47 dello Statuto, concluse: «Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili la soluzione è la forza. Vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora. Non ci sarà bisogno di questo, perché il governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell’Aventino. Voi state certi che nelle 48 ore successive a questo mio discorso la situazione sarà chiarita su tutta l’area».
Tre giorni dopo, il ministro degli Interni riferiva che erano stati chiusi 95 circoli politici, sciolte 25 organizzazioni sovversive, chiusi 150 esercizi pubblici: c’erano state 655 perquisizioni con 111 arrestati. Per i partiti dell’opposizione era finita: sarebbero scomparsi, anche formalmente, entro due anni.
Il fascismo non solo aveva superato la crisi ma aveva avuto mano libera per dare inizio alla fase più totalitaria del regime. Fu il risultato del doppio binario scelto allora da Mussolini: rivoluzionario a parole, conservatore nei fatti. Le impazienze degli squadristi e dei settori più oltranzisti del PNF che premevano per una “seconda ondata” furono contenute, imbrigliate, neutralizzate; le “squadre”, che con la loro violenza avevano militarmente sgominato le opposizioni di sinistra, furono sciolte, inglobate nella Milizia Volontaria Nazionale, imbrigliate nei quadri di un esercito che non perdeva occasione per gridare la sua fedeltà al Re.
Mussolini spalmò le novità istituzionali “inventate” dal suo regime (il Gran Consiglio) sui vecchi apparati dello Stato liberale, garantendo una rigorosa continuità in settori chiave: la pubblica amministrazione, la politica fiscale, quelli preposti al controllo dell’ordine pubblico (magistratura, forze dell’ordine, etc…). Ma furono i “poteri forti” a dettare le regole della compatibilità tra il nuovo regime e le loro esigenze: la Chiesa, la monarchia, il potere economico apparvero decisivi allora (e lo saranno in seguito) per introdurre vincoli importanti al progetto totalitario del fascismo.
Quando, il 25 luglio 1943, Mussolini fu defenestrato e arrestato, furono proprio questi i protagonisti della “congiura monarchico-badogliana” che aveva alacremente lavorato affinché si giungesse a un esito di quella portata. Ma questo, il 3 gennaio 1925, nessuno avrebbe potuto prevederlo.