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Jodie Foster: “Da ragazza ero molto seria sul set, oggi ho voglia di leggerezza”

7 ore fa 1
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I media d’oltralpe la definiscono, con orgoglio, la «più francofona delle star hollywoodiane» e, stavolta, recitando al fianco del venerato Danieul Auteuil, nel thriller psicologico di Rebecca Zlotowski Vie privée, ieri fuori gara al Festival, non si può negare che Jodie Foster abbia offerto un’altra delle sue prove inimitabili: «Quando recito in francese – spiega - mi sento come se diventassi una persona diversa, ho una voce più alta, sono più vulnerabile, provo una certa frustrazione perché non riesco a esprimermi completamente. Per questo, in passato, nei film francesi, avevo accettato solo piccoli ruoli, senza dialoghi troppo lunghi, aspettavo qualcuno con più esperienza». Eppure, con il cinema francese e con il Festival, la star 62enne ha un rapporto profondo, che ha radici lontane, legate all’apparizione in Taxi driver, nel 1976, quando era poco più di una bambina e aveva perfino corso il rischio di non poter arrivare sulla Croisette: «I produttori non avevano voluto pagare il mio biglietto aereo, sostenevano che De Niro, Scorsese e Keitel sarebbero comunque venuti e che la loro presenza bastava. Mia madre aveva subito ribattuto dicendo che io ero l’unica del gruppo a parlare francese, e così si sono convinti». Le passioni delle madri ricadono sulle figlie: «Mia mamma ha iniziato a viaggiare molto tardi, il primo posto dove è venuta, a 50 anni, è stata la Francia. Se ne è innamorata, è stato un colpo di fulmine. Ha deciso subito che avrei dovuto imparare il francese, per poter fare film qui, e infatti mi ha iscritta al liceo francese di Los Angeles».

Daniel Auteuil, Jodie Foster e Virginie Efira 

 (afp)

Sulla Croisette il battesimo con Taxi driver fu incandescente: «Scorsese e gli altri erano alloggiati a Cap d’Antibes, il film era stato giudicato troppo violento, il dibattito divenne talmente acceso che, alla fine, si sono spaventati e sono rimasti tutti chiusi lì. Così sono stata la sola a parlare con i giornalisti». Risultato? Palma d’oro assegnata dalla giuria presieduta da Tennessee Williams: «Per me il Festival è il luogo dove sono nati tanti film e tanti registi importanti, grandi maestri che hanno contribuito a cambiare la mia vita». Con Zlotowski, che le ha affidato la parte della psichiatra Lilian Steiner, alle prese con il suicidio (o forse omicidio) di una sua paziente, c’è stata subito intesa perfetta: «Adoro Rebecca - ha spiegato Foster, anch’essa regista -, le piace molto lavorare con attori-registi, e in questo siamo identiche. Sul set succede che gli attori pensino al momento, al presente, mentre i registi hanno in testa l’intero affresco». Per il ruolo di Steiner si è preparata, come fa sempre, più da regista che da interprete: «Non ho nessuna formazione attoriale, non ho mai frequentato scuole di recitazione, conosco solo questo modo di lavorare». Un modo che l’ha resa diva amatissima, capace di tutto, fronteggiare cannibali e immergersi sempre, anima e corpo, in storie sensibili e scatenate avventure: «Da giovane ero molto seria, direi anche un po’ pesante, crescendo ho capito che voglio essere un po’ più leggera, è una cosa che sto scoprendo adesso. Capisco che, quando ero ragazza, mi interessava soprattutto raccontare me stessa, anche perché nella mia testa, ero la persona più interessante di cui parlare». Ora è diverso: «Quello che veramente mi fa felice è ascoltare voci nuove, sostenere il punto di vista altrui, fare la vecchia signora che rassicura chi è teso». A 18 anni aveva immaginato di gettare la spugna («avevo recitato talmente tanto che ho sentito il bisogno di prendere un’altra direzione, ho pensato che, se fossi diventata scrittrice, pittrice, scultrice, sarei stata contenta lo stesso»), ma la sua strada era segnata e i risultati dimostrano che era quella giusta: «La lotta tra le emozioni e l’intelligenza – ha spiegato Foster parlando di Vie privée – è la cosa che mi ha sempre attratto di più, penso che il cinema stia tutto in questo confronto».

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Se guarda indietro, al suo cammino e a quello delle donne nell’industria del cinema, Jodie Foster dichiara di aver assistito a tanti cambiamenti: «Quando ho iniziato, le uniche donne che vedevo sui set erano le truccatrici e le segretarie di edizione, poi ho cominciato a notare che, tra i tecnici, il numero delle presenze femminili aumentava, ma l’ultima frontiera da abbattere è sempre stata quella della regia. Quando ho deciso di diventare regista, mi sono sentita veramente fortunata. Le persone con cui ho lavorato mi conoscevano, non mi consideravano un rischio, e così ci sono riuscita». Le esperienze con donne registe sono state poche, ma Jodie Foster non ragiona in termini di quote: «Credo - ha dichiarato in un’intervista a Variety -che le scelte debbano essere fatte soprattutto in base all’istinto, mi auguro, che, al di sopra di tutto, ci sia l’interesse per l’essere umano. Per me, ad esempio, il regista più femminista con cui ho recitato è stato Jonathan Demme, nel Silenzio degli innocenti. Detto questo, le percentuali hanno un senso soprattutto quando si tratta di offrire a qualcuno l’opportunità di esordire. Cominciare presto è importante e bisogna dare a tutti la possibilità di farlo, quanto prima».

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Certo, convincere le produzioni a ingaggiare più autrici non è stato semplice: «Prima dei miei ultimi tre progetti, avevo girato un solo film con una regista donna. E dire che lavoro da più di 50 anni. Ora le cose si stanno muovendo, ma è incredibile che ci sia voluto così tanto tempo per far capire ai dirigenti degli studios che le donne rappresentano il 50% della popolazione».

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