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L'AQUILA. Quindici anni. In passato in molti avevano indicato questa scadenza come il momento in cui L’Aquila sarebbe stata riconsegnata agli aquilani ricostruita di tutto punto, almeno il centro storico se non le frazioni dove, si sa, tutto va sempre a rilento. I quindici anni sono trascorsi, quasi 20 miliardi sono arrivati, ma a camminare nelle strade di questa città dove il 6 aprile del 2009 il terremoto arrivò portandosi via 309 persone, provocando circa 1600 feriti, 100mila sfollati e oltre 10 miliardi di danni, il centro storico dell’Aquila è una deludente serie di citofoni nuovi di zecca dalle targhette vuote come gli edifici a cui appartengono. Ad abitare tra i vicoli che si irradiano dal Duomo sono un migliaio circa di persone, un decimo rispetto al 2009. Vuol dire che nove persone su 10 sono andate a vivere altrove. La ricostruzione è andata avanti comunque ma i palazzi completati sono deserti, di sera dietro le loro finestre non si accendono mai le luci.
«Oggi il centro dell’Aquila è un non-luogo - conferma Silvia Frezza, insegnante dell’istituto comprensivo Gianni Rodari - Non ci sono cinema, teatri e nemmeno scuole. È una vetrina dove durante il giorno si cammina tra i negozi che hanno riaperto e di sera tra pub, bar e poco altro. Manca l’antica bellezza ma la bellezza non si ricostruisce senza portare la vita».
Massimo Cialente continua a passeggiare per i vicoli della città che ha guidato per dieci anni, otto dei quali dopo il terremoto. Si ferma davanti ai portoni chiusi, osserva sconfortato i citofoni senza nomi e scuote la testa. «Il centro era il mio cruccio. Ricostruirlo e riportare le persone a viverlo era la priorità». Nel 2014 raccontò la lunga battaglia per riportare i poteri agli enti locali archiviando la centralizzazione voluta da Berlusconi e assicurò che a quel punto finalmente si poteva procedere più rapidamente e che in tre anni il centro sarebbe stato rifatto. Tre anni dopo, nel 2017, perse le elezioni, all’Aquila si insediò Pierluigi Biondi, fedelissimo di Giorgia Meloni, e iniziò una stagione diversa. «Purtroppo ora non c’è la volontà politica di restituire alla città il suo cuore pulsante», è l’accusa lanciata da Massimo Cialente che, dopo aver lasciato il palazzo comunale, è tornato alla professione di medico e ora è in pensione.
«Resto una persona che non si rassegna ma speravo in qualcosa di meglio. In passato il piano strategico ha salvato questa città, ora manca qualsiasi capacità di pianificazione. Si spendono i soldi che sono arrivati e non si sa che cosa accadrà quando finiranno. Si è speso più di 500 mila euro per allestire il palco dell’ultima Festa della Perdonanza. Siamo la Città dello sport ma siamo terzultimi per la quantità di palestre presenti. Siamo capitale della cultura ma abbiamo un centro senza luoghi della cultura. Ci promuovono ma noi arriviamo all’esame senza aver fatto i compiti», conclude Cialente.
All’amarezza del suo predecessore il sindaco attuale, Pierluigi Biondi, risponde ostentando ottimismo: «Riaprono palazzi, chiese, Palazzo Margherita, il Palazzo di Città inaugurato a dicembre. E vediamo cantieri che si avviano, spazi di socialità, impianti sportivi», sostiene. Ma dietro l’ottimismo si fa strada la realtà: per poter vedere la fine di questa lunga ricostruzione bisogna aspettare il 2039, altri quindici anni, ammette Biondi. È la sensazione che si percepisce camminando tra palazzi imbracati in massicce strutture di ferro e in attesa di un remoto inizio lavori, edifici imbiancati di fresco dove sventolano tristi striscioni con la scritta ’affittasi’, l’aria carica di polvere che fa tossire e secca la gola, il rumore dei martelli penumatici e l’odore della fiamma ossidrica proprio come sette-otto anni fa quando l’idea che L’Aquila fosse un cantiere lanciava un messaggio di speranza mentre adesso trasmette soltanto una profonda disillusione. Massimo Piunti e Silvia Di Gregorio sono artisti: per portare avanti la tradizione abruzzese delle pupazze, enormi fantocci di cartapesta da far roteare e ballare nelle piazze dei paesi, avevano scelto di abitare a Roio Piano, una delle frazioni dell’Aquila. «Quindici anni fa ero una madre di una bambina di un anno e incinta di un altro. - racconta Silvia Di Gregorio - Pensavo di aver trovato un luogo dove mettere radici e crescere i figli. Ora, invece, il paese dove vivevamo non esiste più e le persone con cui avevamo costruito la nostra rete di relazioni sono quasi tutte morte».
Silvia e Massimo abitano ancora nei Map, i moduli prefabbricati che hanno dato un tetto a chi ha perso la casa. «In questi anni si è perso il senso della comunità. - continua Massimo - Stanno ricostruendo i palazzi e le piazze ma all’anima delle persone non pensa nessuno. Spetta a noi cercare di abbellire la vita delle persone con la nostra arte, con i laboratori nelle scuole e gli spettacoli che stiamo preparando». Vivere in una città cantiere significa anche questo, provare a reinventare ruoli e luoghi per sopravvivere. «Noi giovani il terremoto ha cancellato tutti gli spazi dove ritrovarci. - racconta Enrico Vaccarelli, 23 anni - Ce li siamo ricreati da zero». Quindici anni fa. prosegue Enrico, «ero un bambino che si stava formando. Ora sto studiando psicologia e so che traumi come quelli che abbiamo vissuto noi possono influenzare fortemente i bambini. È quello che è accaduto a noi e vorrei ora indagare proprio i traumi collettivi e le loro conseguenze».
Un trauma può essere affrontato in diversi modi. Si può rimuovere quello che è accaduto come sta facendo una parte della popolazione che non ha voglia di sentir parlare di anniversari e di morti e si può prendere il peso di quello che è successo e andare avanti come sta facendo Federico Vittorini, 28 anni, che nel terremoto ha perso la madre e la sorella e ora è l’anima di tanti progetti per «Fare memoria» partendo dalle scuole. «Bisogna andare oltre il lutto e avere la consapevolezza che, anche dalle cose più brutte, si riescono a creare opportunità per un futuro migliore», spiega. È la stessa riflessione che arriva da Alessandro Chiappanuvoli, scrittore.
«In questi anni ho capito che L’Aquila non può vivere per una ripresa basata sul turismo di massa. Dovrebbe, invece, diventare la capitale del terremoto, un centro di sapere che guarda al terremoto senza la stimmate di esserne le vittime ma con la consapevolezza di avere questo ruolo e facendosi promotore di un sapere condiviso. Questa è civiltà e responsabilità».