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In questi giorni, sull’onda delle consuete riflessioni di inizio anno, viene spontaneo lasciarsi andare a pronostici azzardati su come sarà il mondo nel 2025. L’esperienza dovrebbe ricordarci quanto siano inutili: basta un virus tenace o un attentato riuscito per mandare all’aria anche la previsione più accurata.
Nonostante ciò, l’augurio condiviso dalla maggioranza resterà invariato: vivere finalmente un anno di svolta, capace di portare abbastanza chiarezza da permetterci di guardare oltre questo presente confuso.
Siamo realistici: le minacce più gravi continueranno a insidiarci. Il riscaldamento globale, le migrazioni di massa, i conflitti non scompariranno. Per noi, popolo degli incerti, sarebbe tuttavia già un successo capire un po’ meglio come queste dinamiche evolveranno e interagiranno tra loro.
Concludere le guerre in corso porterà davvero più stabilità o sarà solo il preludio di altri conflitti? Il cambiamento climatico spingerà le nazioni a collaborare o, piuttosto, a combattere per risorse sempre più scarse? Quello che è certo è che non vorremo vivere un altro anno costretti a decifrare il futuro attraverso notiziari pieni soltanto di dubbi.
È proprio sull’onda di questo giustificato desiderio di chiarezza che sembra possibile azzardare almeno una previsione: nel 2025 continueranno a crescere culture politiche votate al culto del controllo e del comando, capaci di presentarsi come paladine della sicurezza e della tradizione. Culture capaci di offrire oggi prospettive all’apparenza più rassicuranti rispetto all’approccio liberal progressista, percepito sempre più come inerme e impotente di fronte alle sfide del presente.
È un’onda che sembra investire allo stesso tempo contesti molto diversi tra loro. Da un lato, assistiamo a un rafforzamento di progetti e narrazioni sempre più radicati nel mito del governo forte e delle radici storico-identitarie, in società tradizionalmente lontane dalla liberal democrazia di stampo occidentale.
Così, la Cina si affida a un confucianesimo rafforzato come motore anche economico della sua potenza, l’India rivendica l’orgoglio indù ribattezzandosi Bharat, e la Russia torna ad esaltare Ivan il Terribile e a riabilitare persino Stalin.
Dall’altro, osserviamo deviazioni verso forme di “autoritarismo morbido” anche nelle nostre società, senza che queste, tuttavia, manifestino un ripudio completo della democrazia; anzi, il loro potere risulta tanto più efficace quanto più è alimentato dalla richiesta degli elettori. Gli Stati Uniti inneggiano all’epopea della frontiera dietro lo slogan MAGA e in Europa crescono coloro che si accodano, sia a destra che a sinistra. È chiaro come si tratti di un fenomeno tanto globale quanto apparentemente inarrestabile.
Del resto, come si può resistere a queste prospettive, quando a prevalere sono le emozioni? Oggi lo “spirito del tempo” non sembra poi così diverso da quello con cui gli italiani partecipavano ai “Vaffa Day”, gli inglesi votavano la Brexit, o gli americani eleggevano Trump nel 2016.
Gesti di protesta che sintetizzavano un pensiero simile di paura e desolazione di fronte a difficoltà e incertezze. Ma ora l’autoritarismo morbido riesce ad andare oltre: incanala quei sentimenti confusi in offerte rassicuranti, per quanto temporanee, come barriere contro i migranti, cessate il fuoco immediati, guerra totale alla transizione ecologica.
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Sarebbe però un errore descrivere questo “lavoro” sulle emozioni come mera manipolazione. La politica è anzitutto capacità di sintonizzarsi con esse, articolandole in un linguaggio che vada oltre il turpiloquio, dando nome e forma a quei sentimenti.
Ed è proprio ciò che deve fare oggi la cultura liberal progressista, se vuole ancora provare ad incidere: lavorare sulle emozioni, trovando il modo di trasformare i moti di stizza, non per edulcorarli o razionalizzarli in modo perentorio, ma per convogliarli in proposte che siano coerenti con la propria cultura.
È evidente che non basta avanzare ragionevoli argomentazioni sull’inefficacia delle proposte altrui, o invocare “speranza” e “libertà”, come ha fatto con scarsi risultati Kamala Harris nelle presidenziali americane. Sentirsi dire cosa è meglio per sé stessi e per l’umanità, senza poterlo realizzare, è frustrante e spinge molti a chiudersi nel silenzio o, peggio, a cedere a impulsi distruttivi.
L’unica strada per farlo è allora coinvolgere i cittadini in prima persona: renderli protagonisti del cambiamento, non imponendo soluzioni dall’alto, ma spingendoli a canalizzare le loro emozioni in uno sforzo creativo. Proposte che possano essere ascoltate e condivise in forme e strumenti di partecipazione organizzata nuovi: immaginarli e costruirli è la grande sfida del prossimo futuro.
Pensare che questo basti a sciogliere tutte le incertezze sarebbe illusorio, ma farebbe del 2025 quantomeno l’anno di un primo cambiamento: per una volta, verso una politica alternativa.