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L'inferno di Evin, dove sono passati dalla Nobel Shirin Ebadi al regista Jafar Panahi

17 ore fa 1
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Lo chiamano “l’università”, gli iraniani. Perché là dentro, nel famigerato carcere di Evin, hanno visto rinchiudere negli anni una buona fetta dell’intellighenzia del Paese, studenti, insegnati, artisti, registi come Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof, oppositori interni e anche cittadini stranieri accusati di spionaggio per conto degli Stati Uniti o d’Israele. Secondo Human Rights Watch contiene al momento un quarto di tutti i prigionieri di opinione iraniani, tra cui le protagoniste e i protagonisti del movimento “Donna, vita, libertà”. Il primo mezzo secolo della Repubblica Islamica sta inciso, detenuto dopo detenuto, sulle pareti umide di Evin, le segrete costruite nel 1972 a uso dell’intelligence dello Scià, la temutissima Savak, e rilevate dopo la rivoluzione del 1979 dagli ayatollah, i torturati diventati torturatori.

La struttura, arroccata sulle alture a nord della capitale Teheran, si staglia massiccia sullo sfondo di un grande parcheggio pubblico. Mura che non perdonano neppure lo sguardo: il 23 giugno 2003, rea di aver fotografato l’ingresso fortificato di Evin, davanti al quale stazionano per giorni le famiglie di chi a rotazione scompare, la fotoreporter irano-canadese Zahra Kazemi è stata arrestata, picchiata, stuprata ed è morta due settimane dopo in ospedale.

Oltre la soglia dell’inferno c’è il buio. Le descrizioni che ne abbiamo sono il collage dei ricordi di chi è passato di là e gli appunti di chi, temendo di finirvi, ripete a mente la planimetria, i corridoi, il percorso che porta agli uffici degli interrogatori, le stanze della tortura, i rami dell’edificio con le celle d’isolamento.

Nel primo blocco ci sono gli uffici, il tribunale della Rivoluzione, l’ex teatro trasformato in un luogo di preghiera, gli ambulatori e poi, attraversato il cortile, lo spazio si allarga come una mano, da una parte in direzione della zona dell’isolamento e dall’altra verso le celle vere e proprie. Non c’è un ordine preciso: a partire dall’inizio degli anni ’80 il numero dei prigionieri è lievitato a dismisura ed è stato necessario occupare nuovi spazi, dal vecchio archivio della Savak alla piscina dei dipendenti dell’epoca dello scià (oggi una sorta di sartoria per le divise) alla zona dell’isolamento. Quest’ultima, ufficialmente sotto il controllo del ministero dell’intelligence, è di fatto in mano a Sepah, i Guardiani della Rivoluzione, ed è il “limbo” dove le persone appena arrestate, colpevoli fin quando non si provano innocenti, aspettano bendate tra la stanza degli interrogatori, la numero 1, sinistro amplificatore di grida disperate e rumori bestiali, e l’isolamento vero e proprio. E’ qui, settore isolamento, che si trova la duplice sezione maschile e femminile riservata agli oppositori politici, la 209, dove, tra gli altri, sono rimasti sospesi in “custodia cautelare” il marito della giurista attivista Nasrin Sotoudeh e la premio Nobel Shirin Ebadi ma anche dove, nel 2022, la travel planner romana Alessia Piperno è stata rinchiusa 45 giorni perché accusata di aver partecipato alle proteste nel nome di Mahsa Amini.

La 209 – il cui nome deriva dal numero telefonico interno ed è rimasto invariato rispetto ai tempi dello scià - è un’esperienza che resta addosso a distanza di anni. Una prigione nella prigione, senza alcuna regola, senza tempo (si resta da alcuni giorni a mesi, anche sette). Se ne parla abbassando la voce. Nessuno dimentica.

I prigionieri scendono per le scale in un seminterrato di diversi piani composto da più sale e corridoi con celle una accanto all’altra. Le celle, impermeabili a qualsiasi suono esterno, compresi quelli vicini, misurano tra i due e i quattro metri quadrati (ma ce ne sono anche da un metro per due) e sono alte quattro metri, dispongono di un lavandino e comprendono una coperta, un paio di pantofole, una tazza. Pareti bianche, pavimento di gesso coperte di nomi e date incise, nessuna finestra né luce naturale: la lampada in alto è accesa ventiquattro ora al giorno, cibo e acqua arrivano attraverso una finestrella. Ebadi ha raccontato nel suo libro dell’isolamento, era come stare in una tomba dentro cui non c’era altro oltre una coperta sporca.

Altri rami “isolamento”, come il 240 (forse al momento il peggiore) e il 325, sono stati costruiti più tardi sul format 209, luoghi di transito in cui – è ancora la memoria dei carceri – si guardano le pareti fino ad avere le allucinazioni e da cui esce con i tratti del volto alterati. La chiamano “tortura bianca”, l’isolamento (“Da quando ho lasciato Evin, non riesco a dormire senza sonniferi. È terribile. La solitudine non ti abbandona mai, anche dopo che sei ‘libero’. Ogni porta che ti viene chiusa addosso ti colpisce. È per questo che la chiamiamo tortura bianca. Ottengono ciò che vogliono senza dovervi colpire”). Pur di scambiare una parola i detenuti si rivolgono al secondino di turno chiedendo più o meno cibo, la carta per andare in bagno. Capita di frequente che “le confessioni” e “i pentimenti pubblici” dichiarati in televisione – elementi inammissibili come prove in qualsiasi sistema giudiziario basico - provengano da qui.

“Nelle prime ore è molto difficile. Non sei mai stato così vicino ai muri in vita tua. Non ci si vuole sedere, perché c’è il gesso e non si è abituati a sedersi sul gesso. Si sta in piedi. Si cammina. Cominciate a soffrire di vertigini. Dopo aver avuto le vertigini, ci si appoggia a un muro. Dopo tre o quattro ore, le gambe si stancano e ci si siede. Poi urli e nessuno ti sente. E ti senti come se ti stessero abbracciando, come se ti stessero fisicamente stringendo. I capelli e le unghie crescono più velocemente. Molti prigionieri dicono che l’isolamento è come essere “morti nelle proprie bare”, perché avevamo sentito dire che le unghie dei morti crescono nelle loro bare. Anche se mi avevano dato qualcosa da leggere, mi avevano tolto gli occhiali. Anche se avessi avuto gli occhiali, non c’era abbastanza luce. Non c’è suono. Ogni tanto si sentiva il richiamo alla preghiera. Dopo tre giorni diventa molto, molto difficile. Le persone crollano in momenti diversi”. L’Iran non ha mai sottoscritto la convezione Onu contro la tortura.

Poi c’è l’”alveare”, con le celle collettive che i detenuti chiamano “camere” perché, al contrario dell’isolamento, si sta in tanti, gomito a gomito, in uno spazio limitatissimo (sei metri per sei). Secondo uno di loro che, una volta in esilio, ha visitato il carcere di Gramsci, a San Vittore, quella, in confronto, appare come una stanza grande (“A Evin ci avrebbero rinchiuso almeno quaranta persone”.)

I detenuti non in isolamento – oppositori come la Nobel Narghes Mohammadi ma anche “comuni” (nel braccio 7 per esempio ci sono i condannati per truffe finanziarie e nel 4 i condannati per corruzione) - ricevono visite in parlatorio una volta alla settimana e accedono. più o meno con regolarità, al cortile, mezz’ora al mattino e mezz’ora al pomeriggio. Alcuni devono camminare con gli occhi bendati, in modo da poter vedere solo il pavimento. C’è una biblioteca (ma i “politici” hanno spesso accesso solo a libri religiosi), un piccolo supermarket. Girano quantità incredibili di droga. La tortura, testimonia Amnesty International, è l’idioma locale: il caso più conosciuto a livello internazionale è quello della Premio Nobel Narges Mohammadi che sta scontando 12 anni e 11 mesi per il suo attivismo per i diritti umani e che pur soffrendo di serie patologie cardiache e polmonari viene privata delle cure essenziali. Il marito Taghi Rahmani, oggi in esilio, è il giornalista ad aver trascorso più tempo ad Evin: tra periodi dentro e periodi fuori, un totale di 13 anni.

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