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L’Iran è più debole ma ora l’Occidente non sottovaluti il rischio Erdogan

7 ore fa 1
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Con questo articolo il filosofo e politologo francese Bernard-Henri Lévy torna a “La Stampa” come editorialista. Un’altra firma internazionale prestigiosa per il nostro e vostro giornale.

Ora che l’Iran è indebolito, dovremo preoccuparci della Turchia. Indebolito, dico. Per porre fine alla minaccia che i Guardiani della Rivoluzione iraniana fanno pesare sul mondo intero servirà qualcosa di più della distruzione di Hamas, del disarmo di Hezbollah, della caduta dell’atroce dittatura degli Assad in Siria. Le cose, però, cominciano a girare per il verso giusto.

Grazie a Israele, la famosa Mezzaluna sciita - che andava da Teheran a Baghdad, passando per Damasco e finendo poi a Beirut, e che aveva preso in ostaggio i popoli della regione - è a brandelli.

Nella guerra mondiale che stanno combattendo contro di noi quelli che io ho chiamato «I cinque regni», nella nuova Grande Partita nella quale i cinque sembrano avvicendarsi per aggredire l’Occidente, uno dopo l’altro, e mettere in riga tutti quelli che fuori dall’Occidente si riconoscono nei suoi valori; in questo 2024 che volge al termine - in cui l’Iran tenta di serrare le fila, la Russia vorrebbe porre fine alla sua rovinosa guerra contro l’Ucraina, gli stati sunniti islamisti attendono prudentemente l’arrivo di Trump e la Cina si dibatte con una crisi economica senza precedenti che scuote il modello neocapitalista che credeva essere infallibile - adesso tocca alla Turchia prendere l’iniziativa.

È proprio così nei Balcani e, in particolare, nella mia cara Bosnia dove Recep Tayyip Erdogan non perde occasione di riempire il vuoto lasciato dopo l’assedio di Sarajevo di trent’anni fa, dalla tragica abdicazione dell’Europa.

È proprio così in Armenia dove, a distanza di un anno dall’assalto al Nagorno-Karabakh e i successivi dislocamenti della popolazione, Erdogan non ha rinunciato al suo panturchismo e brama ancora e sempre la regione di Syunik nel Sud.

È proprio così presso gli iraniani dove l’alleanza non esclude colpi bassi e dove, con il tramite dei suoi amici dell’Azerbaigian, Erdogan è in segreto il sostegno più attivo delle velleità separatiste di una minoranza azera che costituisce l’11 per cento della popolazione del Paese.

Ed è comprensibile quando si ascolta l’esecrabile discorso che ha appena pronunciato a Sakarya, di fronte ai quadri del suo partito, dove ha espresso la sua volontà di riconsiderare i trattati che, mettendo fine alla Prima guerra mondiale, sancirono lo smembramento dell’Impero ottomano.

Ed è ovvio in Siria, dopo la comparsa di questo strano individuo che non dobbiamo più chiamare Al-Joulani, suo nome di battaglia ai tempi di Al-Qaeda, che ha potuto combattere la sua «rivoluzione» soltanto grazie all’aiuto politico, finanziario e militare dello Stato turco.

Ebbene, lasceremo che accada? Accetteremo che all’influenza al crepuscolo dell’estremismo sciita si sostituisca quella dei Fratelli Musulmani?

A pagare il prezzo di quest’ordine regionale in fase di gestazione dovranno essere i curdi - che con Israele sono i nostri migliori alleati nella regione, uomini e donne combattenti che hanno fatto tantissimo, dieci anni fa, per cacciare dall’Iraq e dalla Siria lo Stato Islamico e che poi noi abbiamo tradito?

Questa è l’intenzione dei componenti dell’Esercito Nazionale Siriano che, già a partire dall’8 dicembre, li hanno allontanati da Tell Rifat e poi da Manbij con il sostegno dell’aviazione di Ankara.

Questa è l’intenzione di Erdogan stesso che ricorre, per l’ennesima volta, alla sua vecchia, assurda teoria razzista sull’affinità del popolo arabo, ma non del popolo curdo, con le zone desertiche del Nord-Est della Siria e che così giustifica, preventivamente, le migrazioni forzate che hanno tanto una parvenza di pulizia etnica.

Questo è il significato di quanto ha detto, il 15 dicembre, il suo ministro della Difesa Yasar Guler quando ha dichiarato che è «fuori questione» permettere alle unità combattenti curde dell’Ypg di restare ai confini con la Turchia, alle quali ormai non resta che scegliere tra «disgregazione» e «sradicamento».

Questa è la volontà chiaramente espressa, secondo quanto ha detto lo stesso ministro nella stessa dichiarazione, della «nuova amministrazione» siriana che non avrebbe intenzione alcuna, nemmeno lei, da perfetto proxy qual è, di permettere alle truppe del generale Mazloum Abdi Kobané di agire «da sole» e in uno «spazio autonomo».

Questo è l’incubo di questo grande popolo senza Stato, valoroso ma vulnerabile, il popolo curdo, che da Qamishli a Erbil ha in comune con gli ebrei, gli armeni e qualche altro popolo una conoscenza diretta profonda di cosa vuol dire genocidio e di ciò che lo annuncia.

Le democrazie non sono impotenti, possono contrastare la vergogna che si va preparando. L’economia turca è fragile e non resisterebbe alle sanzioni. Gli Stati Uniti, malgrado si siano ritirati nel 2019, hanno ancora alcune centinaia di uomini sul terreno. E, soprattutto, insieme all’Europa dispongono di quel considerevole strumento di pressione che è la presenza della Turchia nella Nato.

Ne faremo buon uso? Sapremo brandire, anche se sarà complicato realizzarla, la minaccia di espellere la Turchia da un’alleanza che presuppone un minimo di valori condivisi?

Avremo il coraggio di dire ad Ankara: «Non toccate i nostri amici curdi… Si tratta di una linea rossa invalicabile… L’Occidente si è ricostruito, 75 anni fa, sull’ideale di rendere impossibile un altro genocidio»?

Questa, insieme alla guerra in Ucraina, è la questione politica più importante di questa terribile fine dell’anno 2024.

Traduzione di Anna Bissanti

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