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L’editoriale d’addio di Paul Krugman al New York Times, un bilancio politico degli ultimi venticinque anni dell’Occidente democratico, ha aperto un filone di dibattito nuovo sull’avanzata dei sovranismi populisti raccontandola come il passaggio dall’età dell’ottimismo ai cupi giorni del rancore. Ora che siamo arrivati in questo “luogo sinistro”, scrive, sperimentiamo la kakistocrazia, il governo dei peggiori, e c’è nostalgia dei vecchi tempi della destra repubblicana, quella di George Bush (di cui Krugman fu acerrimo nemico), quando «pace e prosperità erano date per scontate» e si poteva votare con leggerezza il candidato più simpatico.
Chi sono i peggiori?
È un atteggiamento comune a larga parte degli opinionisti liberal davanti allo tsunami che ha investito la nostra parte del mondo, con i nuovi Lord del potere politico, economico, finanziario, comunicativo e persino interstellare che promettono di rovesciare dall’interno il sistema ereditato dalla seconda guerra mondiale. E tuttavia quelli potrebbero ribattere che kakistrocrazia era la malattia di prima, che i peggiori furono quelli che mentirono sulle armi chimiche per abbattere Saddam, che usarono i fondi pubblici per salvare un sistema bancario rapace oltre ogni limite, che avallarono l’illusione salvifica del tech, dei social, della disintermediazione del lavoro via app. Non si finirebbe più. Discutere su chi è peggio, su chi ha cominciato prima, su chi ha detto più bugie per difendere i propri interessi, è impresa inutile. Ha fatto o può fare più danni Elon Musk sdoganando i neonazisti di Afd oppure Alan Greenspan, confermato alla Federal Reserve da cinque presidenti, l’uomo che solo a mandato finito riconobbe di aver sbagliato tutto, che sottrarre i mercati finanziari al controllo della Banca Centrale era stato un enorme errore?
Italia apripista
Si ha la sensazione che kakistocrazia, nel vocabolario odierno, sia diventata semplicemente “il governo degli altri”. L’Italia è stata in qualche modo apripista anche su questo. Kakistocrati tutti, per la destra, quando la destra era nell’angolo e si consolava coniando il suo abbecedario del disprezzo: i buonisti, gli immigrazionisti, gli amici di Soros, le nazifemministe, la sbruffoncella tedesca, i gretini, i tecnocrati senza patria, le zecche, i mercenari della cancel culture. Kakistrocrati tutti, per la sinistra, quando nell’angolo ci è finito il mondo lib-dem e pure lì ha cominciato a scintillare il lessico della contrapposizione ingiuriosa: fascisti, inadeguati, ignoranti, pancia del Paese, bersagli da colpire, a testa in giù, eccetera. Certo, non abbiamo mai raggiunto le vette della campagna elettorale americana e della sua gara di insulti iperbolici: instabile, squilibrato, vendicativo, fascista (Kamala Harris vs. Donald Trump); lunatica, pazza, demente, forse drogata (Donald Trump vs. Kamala Harris). Anche nel cimento della kakistocrazia gli Usa sanno essere superpotenza, grandiosi, esagerati…
Tempi da Game of Thrones
In questa gara di reciproca delegittimazione, dove ogni fronte politico rappresenta se stesso e il suo popolo come un esercito in guerra con un mostruoso nemico-dittatore, l’ottimismo dei primi anni Duemila, quello evocato da Krugman, è merce inservibile. Catastrofismo e millenarismo sono i sentimenti che pagano nella contesa per il potere, e si capisce lo smarrimento del mondo progressista: nel cavalcare questo tipo di emozioni la destra, ogni destra, è sicuramente più abile. L’idea del Kali Yuga alle porte è la sua scuola di formazione, specialmente in Italia dove si è sentita a lungo parte di un partito metastorico degli sconfitti che alla fine del mondo, nella nuova alba dopo il collasso del liberal-comunismo, avrebbe avuto la sua rivincita.
Il risentimento, conclude Krugman, può portare al potere le persone sbagliate ma non può tenercele a lungo: opporsi alla kakistocrazia è il solo modo “per ritrovare la strada verso un mondo migliore”. Possibile. E tuttavia la sensazione è che anche la lotta politica, dopo la morte delle ideologie novecentesche, sia diventata un impegno (o un’ossessione) circoscritta alle elites, di destra o di sinistra che siano. Nel suo ultimo editoriale il direttore Andrea Malaguti ha citato Game of Thrones, e vai a vedere che la cifra dei tempi nuovi sia da trovare lì, in una frase del più fedele tra i cavalieri del libro, sir Jorah Mormont: «Il popolo prega per la pioggia, per la salute e perché l’estate non finisca. A loro non interessa il gioco del trono degli alti Lord».