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Giovanni Falcone era a favore della separazione delle carriere: «Ho la faticosa consapevolezza che la regolamentazione della carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti - aveva detto con chiarezza in un convegno, qualche mese prima di morire - diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste: investigatore il pm, arbitro della controversia il giudice». Tra le sue qualità, Falcone non aveva di certo quella della sensibilità politica, che lo avrebbe aiutato nel confronto con una categoria - le toghe di cui faceva parte - già ai suoi tempi molto politicizzata e contraria al cambiamento. Affermazioni come questa, pronunciate apertamente, anche se non ebbero grande pubblicità, contribuirono certamente all’isolamento che lo accompagnò negli ultimi mesi di vita, quando appunto solitario conduceva la sua battaglia per l’istituzione della Superprocura Antimafia, incassava gli ergastoli contro la Commissione di Cosa Nostra, confermati in Cassazione, del maxi-processo nato dalle rivelazioni che il più grande pentito della storia della mafia, Tommaso Buscetta, aveva voluto consegnare proprio nelle sue mani. E poco prima di finire vittima, con la moglie Francesca Morvillo e la scorta nell’attentato di Capaci del 23 maggio ‘92, scriveva i suoi articoli per La Stampa, tra i quali però, prudente una volta tanto, non volle includere l’argomento delle carriere separate di pm e giudici.
Sarà durissima, da oggi in poi, la battaglia contro la riforma istituzionale voluta da Forza Italia e rivendicata nel ricordo di Berlusconi, che ha avuto il primo «sì» alla Camera (maggioranza compatta, opposizione divisa con Italia viva e Azione favorevoli alla legge). Non solo perché rispetto all’autonomia differenziata - demolita dalla Corte costituzionale che l’ha rispedita al Parlamento, e priva ormai, come il premierato, dell’appoggio convinto di tutto il destra-centro - è l’unica delle riforme contenute nel programma originario della coalizione di governo a poter essere approvata a passo di carica (il primo giro, dei due necessari, potrebbe concludersi al Senato entro giugno). Ma perché il vero scontro sarà con i pm che hanno in mano la leva delle inchieste contro una classe politica tutt’altro che irreprensibile, e già adesso alzano la bandiera del «no» all’assoggettamento delle Procure al controllo del governo. Sostenendo che se anche il testo normativo non lo prevede, questo in un modo o nell’altro sarà il punto d’arrivo.
Mentre per quanto riguarda l’opposizione, la frattura che s’è manifestata ieri a Montecitorio è destinata ad approfondirsi, sia perché la popolarità dei magistrati, anche a causa delle rivelazioni sul comportamento dei loro vertici emerse dal caso Palamara, è scesa da tempo nell’opinione pubblica (basta controllare i sondaggi), sia perché nelle città e nelle regioni dove il centrosinistra è al governo, sindaci e amministratori la pensano diversamente dai deputati che ieri in aula si sono opposti.
Infine, presto o tardi che sia approvata, come tutte le riforme costituzionali anche questa della separazione delle carriere sarà sottoposta a referendum popolare, per essere confermata o bocciata. Diversamente da quello sull’autonomia differenziata, a cui tra pochi giorni i giudici della Consulta potrebbero dare il via, il referendum confermativo delle riforme costituzionali non ha bisogno del quorum del 50 per cento più uno degli elettori per essere valido: lo è anche se pochi elettori partecipano e non è possibile annullarlo incoraggiando l’astensione. In altre parole, in un 2026 legato a consultazioni che, come insegna la storia recente (vedi Renzi nel 2016), finiscono per essere sul governo in carica, il voto possibile sull’autonomia e quello sicuro sulla separazione delle carriere, per Meloni, sono destinati a ipotecare la grande prova delle elezioni politiche del 2027. E forse, chissà, a spingerla ad anticipare le urne.