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«Mai fatto politica»: Domenico Lacerenza, il candidato civico scelto dal centrosinistra in Basilicata, assicura che la sua fedina è immacolata: la politica, lui, non sa cos’è. Mai stato consigliere comunale, mai assessore, mai nulla: non è forse il candidato ideale alla presidenza della Regione? Un chirurgo di fresca nomina, che assicurasse di non aver mai messo piede in sala operatoria; un pianista, che garantisse di non avere alle spalle alcun concerto; un nuotatore, che giurasse di non essere mai sceso in vasca susciterebbero qualche perplessità, io credo. Ma in politica, nel centrosinistra, in un campo largo che si regge sul fondamentale apporto dei Cinque Stelle, un curriculum simile non rappresenta affatto un problema, anzi.
I problemi, se mai, sono altri. La base rumoreggia, il candidato deciso a Roma è avversato dai maggiorenti locali, Azione e Italia Viva sono rimasti fuori dall’accordo e sono quindi tentati dall’appoggiare Vito Bardi, il candidato di centrodestra: tutte pietre d’inciampo che non è semplice togliere dal terreno e che tengono ancora in forse la candidatura. Ma la ratio con cui si è giunti all’accordo sul nome di Lacerenza, quella non sembra che venga in discussione. Chiamiamola pure la logica dell’illibatezza. È una logica che accompagna tutta la parabola della seconda Repubblica e che evidentemente, a sinistra, non si è ancora consumata del tutto. D’altronde, mentre il centrodestra è oggi guidato da tre politici di lunghissimo corso – Giorgia Merloni, Matteo Salvini, Antonio Tajani vantano tutti un’esperienza almeno trentennale – Elly Schlein e Giuseppe Conte sono saliti quasi all’improvviso alla ribalta della politica nazionale, entrambi forti del vento della novità, l’uno e l’altro sicuri di potersi compiacere di non far parte della vecchia politica. L’imprinting è quello.
Non è dunque un caso se, quando si tratta di trovare un punto di incontro, non lo si cerchi nelle sezioni di partito (a proposito: esistono ancora?), non lo si individui tra i protagonisti della vita politica locale, non lo si peschi tra i più votati di questa o quella tornata elettorale. Ma c’è di più. Il candidato illibato presenta, agli occhi di chi lo ha prescelto, due caratteristiche preziose: non solo non è impastoiato con la politica politicante – non ha (o si suppone che non abbia) scheletri nell’armadio, trascorsi poco chiari, precedenti poco commendevoli –, ma non ha neppure una identità politica riconoscibile.
C’è qualcuno che ha domandato a Lacerenza se sia un socialista, un liberale, un radicale, un populista mite, qualcosa? Non mi risulta, ma non mi meraviglia. È chiaramente considerato un pregio non somigliare agli uni o agli altri, e non poter ricevere alcuna etichetta all’infuori dell’impegno civico, nel sociale, oppure nell’associazionismo. Tutte cose meritorie, naturalmente, ma di cui si apprezza soprattutto il tratto distintivo negativo. Che è come dire: state tranquilli, non si tratta di politica, men che meno di professionismo politico.
È chiaro che la ventata populista che ha spazzato la politica italiana per decenni è ancora forte, soprattutto a sinistra. Complice il voto in Abruzzo, si dirà, dove gli elettori pentastellati non devono avere apprezzato l’alleanza larghissima che li vedeva mescolati agli altri partiti: sono rimasti a casa, e addio sorpasso sulla destra. Può darsi sia così, ma è più probabile che si tratti di una vera e propria allergia alla tèchne politica, all’arte della politica, alla logica della mediazione, alle virtù del compromesso. E viene da lontano. Dalla parte dei Cinque Stelle i voti si prendono ancora sulla base di un antico mantra, che più o meno suona così: noi siamo un’altra cosa, noi non siamo come gli altri.
È un ritornello che alcuni fanno risalire a diversità antropologiche e superiorità morali coltivate a lungo nella sinistra berlingueriana e post-berlingueriana. Ma contano poco le genealogie: quel che se ne vedono oggi sono gli effetti. Che non riguardano tanto l’esperienza, la competenza, la qualità delle persone – Lacerenza sarà sicuramente un fior di professionista, una persona seria, un gran lavoratore: tutte cose che però di politico non hanno nulla – quanto piuttosto la capacità di tessere alleanze, di costruire un progetto con una cultura politica di riferimento e un più saldo ancoraggio di senso.
Ma c’è poco da fare: l’elettore è ancora immaginato (e forse si immagina lui stesso) come l’Amedeo Battipaglia del film con Alberto Sordi, nei panni dell’emigrato tristanzuolo in cerca di una compaesana illibata con cui convolare felicemente a nozze. Auguri, ma persino nel film la corrispondenza tra i due promessi sposi è trapunta di bugie. La pellicola ha un lieto fine, è vero, ma è ambientata pur sempre in Australia, cioè in un altro mondo. In questa parte di mondo, in mezzo a guerre e cambiamenti profondi e drammatici, pescare il jolly dal nulla sembra davvero una trovata da commedia all’italiana. E se anche rappresentasse una soluzione obbligata in Basilicata, per superare i veti incrociati, dovrebbe finire là, insieme con la lunga stagione che l’ha ispirata.