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La simmetria dell’orrore e i corridoi della pace

7 mesi fa 32
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“Oggi, nel 1964, ci pare che l’uomo non possa risolvere i suoi problemi mediante la guerra, poiché essa ne crea altri ancora più grandi, mettendo a rischio l’umanità stessa”Norberto Bobbio

Mi spaventa tutto. Resto sgomento di fronte alla tempra arrogante di Emmanuel Macron che dice con piglio militare: «Mosca non può vincere, prepariamoci alla guerra». Ma ringrazio il ministro Tajani che risponde: «L’Italia no». Bene, ma chi lo ferma Macron? Chi ferma questa spirale suicida? E detesto le certezze spaventose di Bibi Netanyahu, disposto a giocarsi l’alleanza con gli Stati Uniti bideniani pur di continuare a radere al suolo la Striscia di Gaza. Trentamila vittime, con gli ostaggi carcerati da qualche parte nei tunnel. Quanto sangue deve ancora scorrere? E di chi? Mi interrogo da mesi. Mentre cerco di cancellare dalla testa le immagini del 7 ottobre, la macelleria dei terroristi di Hamas. Le donne stuprate. Le teste mozzate. Le ossa spaccate. Le feste tribali sul sangue dei vinti, raccontate dai video messi a disposizione da Israele per ribadire i motivi della propria rabbia.

Eppure capisco ogni giorno di meno questa pazzia, l’infastidita e blanda attenzione che mettiamo al bisogno di diplomazia e di parole, come se ancora fossimo cavernicoli obbligati alla clava. A Kiev, a Rafah. Le conseguenze di questo stallo, però, mi sono chiarissime. L’orrore è simmetrico. Dalla distruzione non si salva nessuno. Buttiamo via esistenze come se ci scrollassimo di dosso le briciole dopo un’abbuffata di pane. Nella palude del dolore ci sembra tutto uguale e intanto seppelliamo generazioni intere. Per non vedere cerchiamo sistemi che anestetizzino le coscienze. Pensiamo ad altro per non finire risucchiati dal buco nero del nulla eterno. L’ho fatto anch’io.

Poi ho visto una fotografia, in mezzo a un milione di altre fotografie. Un ragazzo palestinese arrivato con la nave Vulcano a Genova, avvolto in una coperta e infilato in barella dentro un’ambulanza. Aveva gli occhi rovesciati e la bocca aperta. Mi ha ricordato un’immagine, molto simile, della strage di Bologna. Una donna sconvolta, il cui primo piano fece il giro del mondo il 2 agosto 1980. Mi sono chiesto chi fosse quel ragazzo che in qualche modo le somigliava, perché alla fine ci somigliamo tutti anche se ci ostiniamo a negarlo. Che cosa avesse fatto di male, a parte nascere nel posto sbagliato.

Ho chiamato la comunità di Sant’Egidio, avendo il sospetto che dietro le vite salvate dalla Vulcano, assieme alla Farnesina, ci fossero anche loro, uno dei loro corridoi umanitari. Mi hanno detto: «Sì, il ragazzo è arrivato qui, a Roma. Non è solo. C’è anche una mamma che ha perso tre figli. Vieni a trovarci. Vieni a parlare con loro». Sono andato, sentendomi in colpa. Non perché mi ritenga responsabile delle loro ferite. Ma perché mi sono chiesto – vigliaccamente - se guardare negli occhi le vittime di una parte significhi tradire le vittime dell’altra. Non abbiamo più una scala di valori umana. Solo “geopolitica”, schiacciati dall’elmetto delle nostre inscalfibili ideologie. E basta dirlo ad alta voce, “geopolitica”, per capire che questo risiko della devastazione viene giocato da pochi importanti padroni del pianeta sulle spalle di intere comunità terrorizzate. Vale la pena sottolinearlo. Se non altro per illudersi che la maggior parte di noi, formiche del pianeta, odi lo schifo in cui ci siamo buttati. Ormai siamo andati oltre. Combattere è inevitabile, apparentemente, sembra che ne vada del nostro senso identitario, della vicinanza ai più deboli. Ma perché non siamo contemporaneamente ossessionati dall’idea di come smettere, invece? Riflessioni confuse, mentre arrivo al Cto di Roma e assieme a tre volontari di Sant’Egidio, entro in una stanza d’ospedale dove una donna col velo è seduta con gli occhi fissi su un punto indistinto nel pavimento, come se avesse bisogno di un’ancora per non precipitare nel nulla. È la mamma della ragazza palestinese che ha perso i tre figli. «Dov’è Amina (il nome non è quello vero)?», le chiede in arabo il nostro mediatore culturale salutandola. Lei indica il bagno con un cenno del capo. Pochi secondi dopo, Amina si presenta su una sedia a rotelle. Il velo nero. Gli occhi impauriti. Le mancano un braccio, dal gomito in giù, e una gamba, praticamente tutta. Proveranno a farle delle protesi. Non sarà facile. Ha 28 anni. Una bomba caduta dal cielo di Gaza ha devastato la sua casa. Le macerie di cinque piani l’hanno schiacciata maciullandole il corpo. Era incinta di otto mesi e di quella creatura in arrivo non è rimasto più nulla. Se ne è andata assieme due fratelli di 7 e 4 anni con cui non è riuscita a condividere un solo giorno su questa terra. Come ti senti Amina? Lei è diffidente. Guarda sua madre. Ti va di parlare? «Non lo so». Ricordi qualcosa di quel giorno? La voce le trema, non le esce dalla gola. Ha passato due mesi piangendo. Ora prova lentamente ad affrontare il lutto. Tre figli persi. Due rimasti a Gaza assieme al marito. «Mi mancano. Gaza è bella. Voglio rivedere mio marito, i due bambini che ho ancora. Ma là non c’è più niente. Lottano ogni giorno per mangiare». Le fanno male i pensieri. Si rifiuta di parlare di Israele. Di Hamas. Di chi sia la colpa. È nata nella Striscia. Ha vissuto nella Striscia. Non conosce una vita diversa. Non la vuole. «Sogno solo che tutto questo finisca». Un’infermiera viene a prenderla per la fisioterapia. Lei dice: «Gli italiani mi hanno trattato come se fossi una loro figlia» e si richiude in se stessa. Proveranno a riaggiustarla, senza riaggiustarla mai. Certi danni sono per sempre. I volontari di Sant’Egidio spiegano che però Amina sta facendo progressi. È arrivata muta e distrutta. Adesso, da qualche parte, vede una luce. La vita che si rifiuta di lasciarsi annichilire, sostengono.

È venerdì, poco dopo mezzogiorno, mentre salutiamo Amina, Sergio Mattarella, a Cassino, pronuncia parole che a me sembrano indiscutibilmente vere: «Siamo al limite della barbarie, la pace è un dovere. L’Italia ripudia la guerra e deve costruire ponti di pace». L’uomo del Colle mi piace sempre di più, mi pare uno dei pochi all’altezza della drammaticità dei tempi che viviamo. Guida il mio personale esercito dei buoni – nessun pregiudizio cretino, solo il tentativo di ribadire i valori fondamentali sapendo che non esistono soluzioni facili - del quale fanno parte anche i volontari di Sant’Egidio che adesso, arrivati al San Camillo, mi presentano il ragazzo palestinese della fotografia. «Lui è Walid (nome inventato) e ha 18 anni».

Eccolo, allora. Lo riconosco. Un ragazzino magro, con le pupille che sprofondano in occhi inquieti. Anche lui è rimasto sotto un palazzo. C’era tutta la sua famiglia. Il suo clan. Sono morti in 25. Fratelli. Cugini. Parenti. «Qualcuno mi ha tirato fuori dalle macerie. Non ricordo nulla. Solo che non riuscivo a muovermi». Era paralizzato dalla testa in giù. Lo stanno curando e da qualche giorno sente un formicolio ai piedi che fa sperare. Ci vorrà tempo. Lui lo sa. «Facevo lo studente. Voglio ancora iscrivermi all’università. Io non c’entro nulla con quello che sta succedendo. Lo subisco e basta. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre è cambiato tutto». Uno zio è di fianco al suo letto. Gli dice frasi che ovviamente non capisco. Come se volesse metterlo in guardia. Invitarlo a non dire cose compromettenti. Più tardi mi spiegheranno che per gente come Amina e Walid restituire pubblicamente le proprie idee è difficile. Ogni giorno sono sottoposti a pressioni per tornare prima o poi a Gaza. E Hamas ha un ruolo tuttora troppo invasivo nella Striscia per poterne prendere esplicitamente le distanze. Sono vittime due volte. Schiacciati dalle violenze che arrivano da fuori e da quelle che subiscono in quel fazzoletto di terra che qualcuno si ostina a chiamare Stato.

Queste sono le vite con cui ci balocchiamo, schierandoci come autonomi su barricate contrapposte. Come se non ci fosse un’alternativa al “o di qua o di là”. Come se credere nella Nato volesse dire schierarsi a prescindere per la guerra. Accettarla, dire «va bene così». No. Non va bene.

Gli occhi di Walid, la sua voce sottile che non si lascia sconfiggere, la sua passione per il Barcellona, ci inseguono mentre rientriamo a San’Egidio per visitare l’asilo. Nel cortile un lenzuolo appeso a una rete con la scritta “W la pace” sembra un messaggio eversivo. Non so se fa ridere o piangere. So che è vero. Persino la parola “pace” è diventata un’arma. Invocare il cessate il fuoco, all’improvviso, è come schierarsi col Male. Ma quale Male? Il disastro è che non cambiamo mai. Che siamo ancora appesi al dibattito sulla “guerra giusta” (Esiste? Quale? Quando?) di Sant’Agostino. Viviamo eternamente nel 350 dopo Cristo. In un tempo immobile nel quale l’unico rumore di fondo, invadente e distruttivo, è quello delle armi.

Alle due del pomeriggio, nella stanza piena di giochi dell’asilo di Sant’Egidio, cinque bambini che hanno meno di tre anni dormono come angeli spiaggiati sulle brandine. Tre sono palestinesi. Uno ucraino. Una bambina è italiana. Sono perfetti e indistinguibili. Senza nazionalità. Immersi in una pace che nessuno di noi adulti sembra intenzionato a proteggere.

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