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Con l’arrivo della primavera la Cgil di Maurizio Landini torna in piazza. Ha organizzato insieme alla Uil uno sciopero generale per l’11 aprile e una manifestazione a Roma il 20. E’ l’inizio della campagna per quattro quesiti su altrettanti referendum. Due contro le norme sui licenziamenti del Jobs Act del governo Renzi, uno contro le liberalizzazioni dei contratti a termine estese dal governo Meloni, il quarto sulla responsabilità del committente per gli infortuni sul lavoro negli appalti.
Landini, iniziamo da qui. Indire referendum è un atto molto politico. C’è chi da tempo sostiene la Cgil faccia più politica che sindacato. Cosa risponde?
«Il sindacato in 130 anni di storia ha sempre fatto politica. La Cgil è un sindacato confederale, non corporativo o aziendalista. Noi lottiamo per difendere i diritti ed il reddito dei lavoratori, dei pensionati, dei giovani e delle donne, per una scuola, una sanità, uno stato sociale degno di questo nome. Ora vogliamo abolire quelle leggi balorde che hanno reso povero e precario il lavoro e la vita delle persone».
Gli ultimi dati dicono che l’occupazione è ai massimi storici, sono aumentati anche i contratti a tempo indeterminato. Perché vuole smontare per referendum le norme in vigore sul mercato del lavoro?
«Andiamo a vederli bene quei dati. Primo: l’occupazione aumenta anche perché le persone vanno sempre meno in pensione. Secondo: non vedo cambiamenti nei numeri dei giovani e delle donne. E terzo: dei contratti di lavoro attivati nel 2023 solo il 16 per cento è a tempo indeterminato, tutti gli altri sono a termine, stagionali, intermittenti. In Italia ci sono sei milioni di persone che dichiarano un reddito lordo di 11mila euro l’anno. Proprio il vostro giornale ha raccontato qualche giorno fa che nove milioni di italiani hanno dovuto spendere un miliardo per affidarsi alle cure dei privati. Poi ci chiediamo perché ogni anno 120mila persone lasciano l’Italia per cercare fortuna altrove. La precarietà è una perdita di libertà per chi lavora. Le farò un esempio».
La ascolto.
«Di recente sono stato ad un’assemblea dello stabilimento Amazon a Piacenza. Quell’azienda impiega in Italia più di quindicimila dipendenti, quasi tutti assunti dopo il 2015. Mi spiega perché quelli che hanno iniziato a lavorare prima devono avere la tutela dal licenziamento illegittimo e gli altri no?»
I sostenitori di regole più flessibili immagino le risponderebbero che senza di esse Amazon non avrebbe fatto tutti quegli investimenti in Italia. O sta dicendo che in questo modo i lavoratori sono comunque meno tutelati e dunque meno liberi?
«I lavoratori non devono essere né precari, né ricattabili, ma cittadini liberi anche nei luoghi di lavoro. Secondo punto: se Amazon ha fatto tutti quegli investimenti in Italia è perché evidentemente c’era lo spazio di mercato per farli. Non è certo una questione di tutele dai licenziamenti, a meno che non si voglia continuare a competere sulla riduzione dei diritti e del costo del lavoro».
Ci sono circa 12 milioni di italiani che quest’anno attendono il rinnovo del contratto, fra pubblico e privato. Come mai? Il sindacato non è in grado di farsi valere?
«Risultati importanti li abbiamo ottenuti per i bancari, nel commercio, energia, alimentaristi e grafici. Poi ci sono quelli ancora aperti, come turismo, ristorazione, grande distribuzione mentre metalmeccanici, edili e tessili stanno presentando le piattaforme. E poi c’è tutto il settore pubblico, senza contratto da tre anni».
Lì la controparte è il governo. Perché la trattativa non procede?
«Il governo ha stanziato risorse che bastano appena a coprire il 5 per cento di inflazione, a fronte di una perdita di potere d’acquisto cumulata del 17. Dove andiamo con questi numeri?».
Non c’è per caso un problema di produttività, o addirittura di scarsa concorrenza fra imprese, perfino nei lavori qualificati? Come sono possibili ritardi di anni nei rinnovi?
«Bisogna aumentare i salari e investire su qualità e innovazione dei prodotti. Abbiamo chiesto di detassare gli aumenti contrattuali, di fare una legge sulla rappresentanza, anche per abolire i contratti pirata ed introdurre il salario orario minimo, di non concedere incentivi pubblici a chi non rinnova i contratti nazionali. Tutto ciò aiuterebbe nelle trattative, ma per ora il governo va in un’altra direzione».
A proposito di risorse: il governo è nei guai con i conti pubblici. Non ha i soldi per fare quasi nulla, al punto da valutare l’ipotesi di non presentare un dato sul deficit programmatico di quest’anno nel Documento di economia e finanza. Se Meloni la convocasse per evitare lo sciopero cosa le chiederebbe?
«Dovrebbe anzitutto smettere di fare incontri finti, o di voler decidere di confrontarsi con chi le fa comodo. E’ da un anno che contestiamo la delega fiscale. Nel frattempo il governo ha fatto dodici condoni, reintrodotto il concordato preventivo, alzato il reddito per la tassa piatta degli autonomi. Occorre una vera progressività su tutta la capacità contributiva, tassare gli extraprofitti delle imprese e le rendite finanziarie. Invece continua a tollerare fenomeni di evasione di massa».
Gli ultimi dati dicono però che l’evasione è scesa, merito anche delle procedure informatiche. Non è così?
«Se sta scendendo non lo si deve certo a questo governo. Mancano ancora all’appello ogni anno ottanta miliardi di euro, e il peso dell’Irpef è quasi tutto sulle spalle dei lavoratori dipendenti e dei pensionati. Posso andare avanti».
Prego.
«Il governo non ha una politica industriale. E’ un errore la vendita della rete di Tim, parlano di privatizzazioni solo per fare cassa, sulla ex Ilva non si intravede una via d’uscita, e chiediamo da tempo che il numero uno di Stellantis (azienda controllata dall’editore di questo giornale, ndr) Carlos Tavares sia convocato per avere garanzie occupazionali e investimenti senza i quali la presenza in Italia è in discussione. Anche per questo il 12 aprile a Torino faremo uno sciopero di tutti i sindacati metalmeccanici».
Un’ultima domanda sul quesito che presenterete in materia di appalti. Le ultime norme del governo non l’hanno convinta? E’ stata introdotta anche la patente a punti, come avevate chiesto.
«Quella norma è una presa in giro, perché è limitata all’edilizia e dovrebbe bloccare sul serio le imprese che non rispettano le norme di sicurezza: se la caveranno con qualche corso di formazione. Il problema è un altro: la responsabilità sugli infortuni deve essere in capo all’azienda che appalta. E’ una storia che viene da lontano: nel 2003 il governo abolì la norma che imponeva negli appalti lo stesso trattamento economico e normativo per tutti. Da allora non hanno fatto che proliferare subappalti e finte cooperative o ad aziende nelle quali in molti casi ci sono state infiltrazioni della malavita».