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Laura Morante: «Dormivo in una pensione clandestina, ho rubato per fame. I miei fratelli? A Natale mi facevano disperare»

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Laura Morante non ha mai imparato a nuotare: «Pur amando il mare, sogno i maremoti, ho paura dell'acqua e i miei movimenti risultano contraddittori. Le braccia non seguono le gambe e io rimango ferma sul posto, quasi immobile» ma non rinuncia al più libero degli stili: «Un’eredità di mia madre che del mondo aveva una concezione personale e del tutto rovesciata. Se un ragazzo appena promosso era premiato con un dono si inalberava. “Il regalo va fatto a chi è bocciato” diceva e non c’era verso di farle cambiare idea». Il cane «si chiama Melita» non trova requie. Cammina tra poltrone, librerie e locandine alle pareti. Ci sono i film, le reliquie teatrali e tutto l’alfabeto che l’ha portata nel nostro immaginario. Cerchi Laura e trovi Amelio, Andò, Archibugi, Avati, Bertolucci, Castellitto, Comencini e Giordana. Vedi Laura e ti ricordi di Monicelli, Moretti, Muccino, Resnais, Salvatores, Verdone, Malkovich e Paolo Virzì. Ascolti Laura e ti accorgi che la sua voce, con l’inverno alle spalle, è un timbro quasi familiare: «del Natale avverto la malinconia».

A Natale era malinconica?

«Piangevo spesso perché ero sempre delusa: mi mancava la componente poetica, il sogno, il raccoglimento. Eravamo atei, ma forse l’atmosfera che inseguivo non si sarebbe manifestata nemmeno se fossimo andati in chiesa. La mattina di Natale mettevo la sedia davanti al presepe e restavo lì, estatica, a osservarlo per ore».

Elsa Morante, la sorella di suo padre, era sua zia.

«Fino a quando i rapporti tra loro furono buoni, Elsa, che non aveva figli, a Natale veniva a trovarci regolarmente. Portava una sporta di doni e pretendeva che fossero assegnati a caso, con una lotteria. Una volta mi regalò proprio un presepe che andammo a comprare in Piazza Navona. Avrò avuto dieci anni. Ce l’ho ancora e per molto tempo l’ho preparato pensando a quando i miei fratelli, facendomi disperare, mettevano Gesù nel pozzo e il maialino nella culla».

Era una donna buona, Elsa?

«Aveva pregi e difetti, come tutti. Oggi ne sento parlare come fosse una santa, ma Elsa era tutt'altro che una santa. Un giorno vado a trovare Moravia e Alberto mi dice: “quando ho conosciuto tua zia aveva tutte le qualità, era bella, era intelligente, aveva talento, ma era cattiva”».

E lo era?

«Ignoro cosa sia veramente la cattiveria, ma so che negare i difetti di un grande talento, anche se non è più tra noi, è ingiusto verso quelli che buoni lo sono e lo sono stati davvero. Perché non dobbiamo dire la verità? Che c'è di male? Una volta mi misero in una giuria presieduta da Michael Cimino. Regista sommo, persona semplicemente insopportabile. Poi muore e leggo che lo hanno trasformato in San Francesco. Siccome moriamo tutti non capisco per quale ragione dovremmo mettere sullo stesso piano i buoni e i cattivi. Perché dobbiamo mentire, edulcorare, dipingere un quadro che non c’è mai stato?».

Suo padre che persona era?

«Un uomo non particolarmente severo che però non voleva fastidi. Diceva che i figli vanno allevati come gli uccelli: una volta che hanno imparato a volare bisogna cacciarli dal nido».

Pasolini l’avrebbe voluta per il “Decameron”. Lei aveva soltanto 9 anni.

«Mio padre che stimava Pasolini e aveva recitato per lui nel Vangelo Secondo Matteo mi avrebbe concesso il permesso senza problemi, ma a impuntarsi fu Elsa: “La rovineranno, non deve farlo per nessuna ragione al mondo”. Mio padre si arrese e così andò».

Lei lasciò comunque il nido di sua sponte.

«Arrivai a Roma per studiare danza nel 1973 o forse nel ‘74. La grande città incuteva timore e mi appariva inquietante».

Per le sue dimensioni?

«Perché ero patologicamente timida. Non osavo nemmeno entrare in un negozio e se dovevo dire due parole, il cuore mi batteva fortissimo».

Era solitaria?

«Stavo sempre da sola e quella solitudine, una solitudine atroce, la soffrivo. Facevo un corso la mattina e un corso la sera, i soldi erano pochi e dormivo in una pensione clandestina: chi poteva pagare per due pasti godeva di due pasti. Io non potevo e quindi ne avevo uno solo, a mezzogiorno».

Aveva fame?

«Credo che sia stata l'unica volta nella vita in cui ho rubato. Avevo talmente tanta fame che andavo in cucina, mi guardavo intorno e una volta certa che nessuno mi osservasse prendevo il pane di soppiatto. La padrona della pensione aveva capito che la ladra ero io, ma, indulgente, chiudeva un occhio».

I soldi sono stati un problema?

«All’inizio sì. Con Daniele, il mio ex compagno, vivevamo appena fuori Roma. Quando c’era un temporale ci pioveva in casa e al centro del salone trovavi le pentole. Una volta venne a trovarmi Lina Taviani. Aspettavo mia figlia Eugenia ed ero disperata. “Non preoccuparti” mi disse. “Ogni bambino viene col panierino”».

Cosa intendeva dire?

«Che ci avrebbero aiutato gli amici, la fortuna, la fiducia. Di lì a poco, facendomi prestare i soldi proprio da Lina, aprii il mio primo conto in banca e anche grazie al mio mestiere iniziai a vivere decentemente o quasi».

Quasi?

«Un po' di tempo dopo venne a intervistarmi una giovane ragazza. Avevo già lavorato con Bertolucci, Amelio e Moretti, ma il divano era sfondato, la libreria mezza rotta e l’ambiente a dir poco precario. Lei osservava incredula. A un certo punto si fece coraggio e domandò: “Vive qui per motivi politici?”».

Lei ha lavorato con il regista più politico tra gli apolitici: Carmelo Bene.

«“Ricordati che sei talentata, ma principiante” mi diceva. E mi licenziava in continuazione. Mi cacciava e poi mi faceva mandare un telegramma dall’avvocato per dirmi di ripresentarmi in teatro. L’avrà fatto venti volte».

Perché la licenziava?

«Perché ero timida, ma orgogliosa. E gli tenevo testa. Con il potere e con i potenti ho sempre avuto un rapporto dialettico. Quando ero giovanissima mi capitò di fare un provino con Damiano Damiani, il regista de La piovra, noto per trattare male se non malissimo le attrici».

Litigaste?

«Avevo una ciocca di capelli che mi cadeva sul viso. Faccio la scena una prima volta e Damiani dice “Va bene, però ricordati di sistemarti i capelli perché altrimenti non ti vedo”. Ricomincio, ma sono emozionata e non mi concentro sui capelli. Damiani si irrita, diventa aggressivo e mi invita a sistemarli nuovamente. “T'ho detto di toglierti i capelli dal viso. Se non ti vedo è inutile”. Alla terza prova comincia a urlare: “Cazzo! Ti ho detto di fare una cosa e tu la devi fare”».

Lei?

«Con grande calma, rispondo: “Lei ritiene erroneamente che questo sia un provino per l'attrice, ma in realtà questo è un provino per il regista. I registi che fanno così non mi piacciono e me ne vado”. E sono andata via. Il volto di Damiani, allibito e totalmente sorpreso, non l’ho dimenticato».

Quando sul set c’era un suo collega dal carattere ispido, placarlo toccava a lei.

«Harvey Keitel sul set era una specie di mostro. Lo detestavano tutti, ma non voleva parlarci nessuno. Così, visto che non lo temevo, mandavano me. Keitel non voleva pronunciare le battute se non era ripreso in primo piano. Eravamo in cimitero, di notte, con un freddo cane. A un certo punto lo affronto: «Adesso per favore ti comporti da professionista così andiamo tutti a casa». Lui, sorpreso, si riscoprì impeccabile».

Come è arrivata al cinema?

«Pensavo di guadagnare un po' di più che ballando, ma non ero animata da particolare convinzione. Non ci ho mai creduto veramente e quasi mi vergognavo a dire che facevo l’attrice. C’è stata un’epoca in cui sui treni ci si conosceva e si parlava. Quando mi chiedevano di me rispondevo in maniera evasiva: “Lavoro nel mondo dello spettacolo”».

Come mai?

«Venivo da una tradizione di famiglia molto letteraria e mi sembrava che il cinema fosse una cosa poco seria. All’inizio poi ero osteggiata dai produttori. Ce li avevo sempre contro: non mi volevano né morta né viva».

Chi la difendeva?

«Gli autori che mi volevano e che per me armavano vere e proprie battaglie: a volte le vincevano e altre le perdevano. Nanni Moretti ad esempio mi volle ad ogni costo per Bianca, ma anche in quel caso il produttore, che era Achille Manzotti, inizialmente si era opposto. “Guarda” disse a Moretti “scegli chiunque, basta che non prendi lei”».

Si è mai data una spiegazione per lo scetticismo dei produttori?

«Mi consideravano troppo strana o troppo poco commerciale. E anche adesso, da regista, dopo aver realizzato due film, non sono riuscita a farmi finanziare il terzo. Forse dipende anche da me, dalla mia mancanza d’ambizione».

È una colpa?

«Mi sono divertita a fare il mio mestiere, ma non l’ho mai considerato la vocazione della vita. Se lo faccio sono contenta, altrimenti non mi dispero. Senza lavorare, le dico la verità, vivo benissimo. Leggo, penso, mi intrattengo. Può darsi che questo atteggiamento, così involontariamente distaccato, mi abbia nuociuto o che in alcune occasioni sia stato scambiato per indifferenza».

Se ne preoccupa?

«Solo quando vedo il conto in banca rattrappirsi. Non sono ricca, non lo sono mai stata».

E com’è stata?

«Combattiva, un po' ingenua e non tanto furba. Se ho creduto spesso agli altri, però, sono stata contenta di farlo».

Sul set si diverte?

«A volte mi diverto, altre mi annoio. Ma non ho mai scelto un film per l’importanza del mio ruolo. Sceglievo le storie. Le belle avventure a cui partecipare».

Alle sue figlie ha spiegato che non bisogna temere il fallimento.

«L’unica cosa che puoi davvero rimpiangere è non aver osato. La mancanza di coraggio lascia una ferita che non si rimargina. Tutto il resto, che si tratti di una porta in faccia o di un’incomprensione, passa. Non resta nulla se non un aneddoto da raccontare. Alle mie figlie dico spesso che la maggioranza degli attori che ho conosciuto fa un errore fondamentale: prende questo mestiere troppo sul serio, ma non lo fa abbastanza seriamente. È un bel lavoro, divertente e appassionante, ma non può diventare il centro della propria esistenza».

Bisogna prevedere una via di fuga?

«Ho visto tanti attori cadere in depressione perché dopo essere stati acclamati improvvisamente non sono stati più chiamati da nessuno. Se investi tutto in quella missione c'è da impazzire».

Invecchiare la consola?

«Hanno cominciato a chiedermi che effetto mi facesse invecchiare quando non avevo ancora 40 anni e non hanno più smesso. Se mi avessero detto che dopo i 40 non avrei più potuto andare a una mostra o godermi un tramonto sarebbe stata una tragedia, ma il problema non c’è mai stato. Magari, invecchiando, gli altri non guarderanno me, ma io potrò continuare a guardare gli altri. Per me è sempre stato un divertimento enorme. Quando lavoravo all'estero non capivo nulla di ciò che la gente si diceva. Era il paradiso: guardavo solo i movimenti del corpo e della faccia, studiavo gli esseri umani. Poi c'era sempre uno gentile che cominciava a tradurre e io mi dicevo: “è finita”. Adesso mi tocca intervenire nella conversazione e le conversazioni erano la cosa che mi interessava meno».

Sembra Conrad: «Come faccio a far capire a mia moglie che se guardo fuori dalla finestra sto lavorando?».

«C'è un bellissimo racconto di Melville sull’osservazione. Un tipo vive in montagna, in un posto freddo e isolato. Vede una finestra illuminata in lontananza e fantastica per tutto l’inverno su chi abiti in quella casa. Quando arriva il disgelo si incammina per capire. Arriva alla porta, suona, si presenta e domanda: “Mi tolga una curiosità, cosa faceva lei mentre io passavo le giornate a osservare la sua finestra?”. “Io? Io guardavo la sua”».

Ridere le piace.

«Amo la commedia, ma al cinema, se escludo l’esperienza con Verdone e i due film che ho fatto da regista, l’ho sperimentata di rado. Non riuscirei a vivere senza umorismo e non ho mai scritto niente che non fosse mosso dall’umorismo, ma capisco che è il mio e al cinema, nella commedia, forse perché amo che si rida di me, ma non che si rida con me o forse ancora perché deve esserci una certa dose di innocenza e in qualche modo devo credere a quello che sto facendo, non mi sono sempre sentita all’altezza».

Chi è l’umorista per lei?

«Un funambolo. Uno che cammina su una corda tesa sull’abisso e rischia».

Quanto è cambiata crescendo?

«Si cambia soprattutto senza volerlo, forse si migliora persino, a patto di saper riconoscere i propri difetti, i propri limiti, le proprie meschinità».

Andò in analisi anche per questa ragione?

«Uno dei primi psicanalisti da cui andai si addormentò. Rimasi turbata e ne parlai con un amico. Lui sostenne che faceva parte della cura, ma non è che quella spiegazione mi abbia convinta poi così tanto»

Che rapporto ha con il ricordo?

«I ricordi trasformano la realtà e non sono mai oggettivi. Ho sempre pensato che una delle caratteristiche dell'arte sia che non inventa niente. L'artista è in ascolto di qualcosa che c'è, che da qualche parte esiste e dice sempre la pura verità. Non crea, tutt’al più rielabora. Lì sul muro c’è una frase di Cechov. La tengo sempre vicina, gliela leggo se vuole».

Cechov-Morante. Vorrei.

«Non si deve mentire mai. L'arte ha questo di particolarmente grande: non tollera la menzogna. Si può mentire in amore, in politica, in medicina. Si può mentire alla gente, persino a Dio, ma nell'arte non si può mentire».

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