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Il serial killer per definizione è maschio, uomo, eppure non sempre è così. Esistono anche assassini seriali donne. Per carità, il numero è molto esiguo, negli Stati Uniti ad esempio si stima che siano al massimo il 7-10 per cento degli uomini. In Italia, è ancor più ridotto: nel nostro paese dalla saponificatrice di Correggio in avanti, le serial killer sono poche, pochissime. O, almeno, quelle conosciute, identificate, anche perché rispetto agli uomini, le donne utilizzano armi più sofisticate, meno cruente, quindi meno identificabili. E, soprattutto, meno violente.
I motivi sono complessi e legati alla procreazione, al ruolo nella famiglia tradizionale. In genere, sono proprio più legate alle loro famiglie d’origine, con i genitori che esercitano un’influenza, un maggior controllo sociale e psicologico. Questo legame si riflette nella quotidianità, nelle relazioni con gli altri, quindi alleggerisce, attenua, leviga, e, nel caso, climatizza il male. Il rischio criminogenetico è fortemente attenuato, anche grazie all’innata propensione di gestione e controllo dell’aggressività, tanto che una donna preferisce rivolgere la violenza contro sé stessa con l’autolesionismo fino a suicidarsi, piuttosto che indirizzarla contro terzi. A meno che le vittime non siano i figli, considerati proprie estensioni e ritenuti incapaci di rimanere al mondo senza la madre. «Tuttavia, nelle culture più moderne – osserva Paolo De Pasquali, psichiatra –, in cui la donna acquista margini sempre maggiori di autonomia, il suo comportamento diviene più simile a quello degli uomini, non solo sul piano socio-lavorativo, ma anche nel campo della criminalità. I delitti compiuti dalle donne (e dalle ragazze) diventano sempre più violenti, con modalità simili ai quelli degli uomini».
Nella criminalità organizzata le donne stanno crescendo in ruoli e responsabilità e l’epilogo della storia di Matteo Messina Denaro può fornire un lucido esempio con le tante donne certo sedotte dal latitante ma altrettante cresciute nella piramide della gerarchia. Figure come Pupetta Maresca nella storia della camorra vengono sostituite da capi donne clan capaci di gestire risorse, indipendentemente dal fatto che i tradizionali boss siano o meno detenuti. Non li sostituiscono più, la funzione della supplenza è superata dall’esercizio del comando.
Tornando alle assassine seriali, la psichiatria le divide in alcune categorie. Nella storia passata, le più numerose sono le cosiddette “vedove nere”, mosse da un movente economico. Uccidono per profitto, vogliono appropriarsi di cespiti, beni, denaro del marito, dell’uomo amato che eliminano con perfidia. Vedono nell’omicidio della fu “dolce metà” una vita nuova, l’opulenza. Oggi dominano quelle persone indicate come “angeli della morte”, ovvero coloro che ammazzano per rivendicare un potere, esercitare il dominio. Il caso scolastico è quello delle infermiere che agiscono in ospedale praticando l’eutanasia clandestina. I pazienti diventano così totalmente gestiti nel loro patrimonio più importante, ovvero la vita stessa, dalla serial killer che decide come e quando intervenire per sopprimerli. L’angelo della morte sceglie armi difficilmente individuabili, tanto che sfuggono alle maglie di indagini e controlli per mesi, anni.
Tra gli strumenti di morte che prediligono un altro, subdolo, quasi invisibile metodo è certamente il veleno che cinema e letteratura, e quindi l’immaginario collettivo, associano alle assassine. Dalla mitologia alla storia, micidiali pozioni hanno eliminato avversari in amore, rappresentanti del potere, tiranni, amanti deludenti. Il veleno non lascia traccia evidente, soprattutto nel passato quando le conoscenze delle scienze, dalla medicina legale alla biologia, non avevano raggiunto i traguardi di oggi. Così il decesso può sembrare accidentale, magari dovuto a un’intossicazione e non un omicidio. La conseguente impunità eleva la parte narcisa e di onnipotenza dell’assassina: si sente così sollecitata da una missione divina (serial killer cosiddetti missionari), capace di sfidare le autorità, e torna a colpire, alimentando quella necessità di uccidere tipica della serialità.
Nel primo secolo d.C. troviamo l’avvelenatrice Locusta, cittadina dell’Urbe che uccide serialmente. È un caso senza precedenti e non viene affrontato come seriale anche perché questa donna era stata assoldata prima da Agrippina, madre di Nerone, e poi dallo stesso imperatore per eliminare chi poteva contrastare il potere crescente e quindi assoluto dell’uomo che era pronto a regnare. Del resto, proprio l’avvelenamento del 12 ottobre d.C. dell’imperatore Claudio con un piatto di funghi consentì la presa del potere.
Più di recente a Palermo ci fu una dinastia di avvelenatrici già raccontate nei “Grandi Gialli”, ovvero Tofania d’Adamo, giustiziata nel 1633 dopo aver confessato di aver ucciso centinaia di uomini (addirittura 500, secondo alcune fonti), la figlia Giulia Mangiardi Tofana, inventrice della mortale “acqua tofana”, contenente un mix inodore e insapore che non lasciava scampo: limatura di piombo, antimonio e anidride arseniosa. Seguì la tradizione di famiglia, la terza generazione di avvelenatrici ovvero Girolama Spana, nipote di Tofania, figliastra di Giulia e figlia del ricco commerciante siciliano Niccolò Spana, Quest’ultima, dopo aver venduto per lunghi anni l’acqua assassina, in totale impunità, era stata scoperta e arrestata, lasciando campo libero appunto alla Spana che mise subito in atto e a reddito quanto imparato a casa.
Con lei, non siamo più in Sicilia, a Palermo, ma a Roma, dove il gruppo che coordina, agisce in modo discreto, sotto il pontificato di Alessandro VII. Il modus operandi è del tutto simile a quello della madre Giulia, Girolama Spana: con la complicità di padre Girolamo di sant’Agnese e l’aiuto di quattro devote collaboratrici, vende il veleno per eliminare mariti violenti, facoltosi ma avari oltre ad avversari di ogni risma. La prima a essere scoperta è Giovanna de Grandis, arrestata dalle autorità pontificie in flagranza di reato il 13 gennaio 1659 mentre stava vendendo il veleno. Detenuta a Tor di Nona, la de Grandis punta subito l’indice contro Spana che viene fermata. Così alla fine, alla sbarra oltre le due, troveremo anche altre complici come la compaesana Maria “Grifola” Spinola, Graziosa Farina e Laura Crispolti. Tutte fattucchiere pronte a riti e pozioni per eliminare chiunque da parte soprattutto di donne ansiose di rimanere vedove. A processo, assenti le prove d’innocenza, vengono tutte condannate alla forca, a Campo dei Fiori, dove nel pomeriggio del 5 luglio 1659 vengono impiccate. Ma questo solo dopo la loro confessione avvenuta qualche settimana prima. Infatti, senza l’ammissione dei reati addebitati non era possibile procedere all’esecuzione. Girolama Spana scrisse una lunga lettera confessoria, assumendosi ogni responsabilità: «Ho dato questo liquido – scriveva nella missiva – a più persone di quante ne abbia di capelli in testa».