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Luca Beatrice 18 aprile 2024
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A mezzogiorno di ieri, finestra metereologica mite dopo la tempesta del martedì pomeriggio, è andata in scena la manifestazione Pro Palestina e contro Israele ai Giardini della Biennale. “Era già tutto previsto”, cantava Riccardo Cocciante e in effetti ci si aspettava fin dalle prime ore un qualche intervento simile a quelli che occupano le università e le piazze cittadine. Ugualmente chiassoso, però è andata bene, il pubblico dell’arte è più civile degli studenti universitari e dei frequentatori dei centri sociali, fingono che la matrice sia la stessa ma qui girano tanti soldi per cui alla fine il caos deve rientrare per permettere agli addetti ai lavori e ai collezionisti (molti dei quali ebrei) di tornare a divertirsi con lo shopping internazionale. Da cui loro sono chiaramente esclusi.
Dal gruppo non poi troppo nutrito, giovane d’età a giudicare dal vocio, bardato di Kefiah, con l’aggiunta di qualche “vecchio malvissuto” per citare il Manzoni, si sono levati i soliti slogan: “Free Palestina... boicott Israel... fuck Netanyahu”. Hanno tirato in aria volantini rossi, “No Death in Venice... no to the Genocide Pavillon”, affermazione grave oltre che qualunquista perché non si può istigare all’odio contro un popolo, ma d’altra parte il linguaggio dei manifestanti non è mai troppo raffinato, sennò lo eserciterebbero in ben altri compiti. Tra i curiosi accorsi, molti in fila per visitare gli altri Padiglioni, girava la voce che fosse una performance, riconoscendo tra i partecipanti anche alcuni artisti. Certo permane il dubbio: se questi sono giorni di vernice della Biennale cui si può accedere solo su invito (e a tutti viene chiesto anche il documento di riconoscimento), i manifestanti chili ha fatti entrare? Per fortuna non c’è stato bisogno dell’intervento della polizia, gli agenti si tenevano a debita distanza tranne i due soldati incaricati di presidiare il Padiglione di Israele per prevenire eventuali atti vandalici.
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LAGUNA E SPETTACOLO
Dal punto di vista meramente sintattico la kermesse per quanto non improvvisata avrebbe potuto rientrare nel novero delle tante manifestazioni collaterali biennalesche. Dal pubblico non si è levata né una voce di dissenso e neppure un applauso. Se i manifestanti volevano sensibilizzare gli amanti dell’arte su una delle questioni più drammatiche e urgenti sulla terra, con la loro prospettiva unilaterale e ideologica, ebbene non ci sono riusciti né hanno colto nel segno. Per quanto piaccia pensarlo impegnato, coinvolto, attento alle minoranze, contro i potenti, il cosiddetto art world ha ben altri interessi che la guerra tra Israele e Hamas.
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JET SET E IMPEGNO
Sarà vero che l’arte registra da sempre lo stato delle cose e non è la prima volta che il dissenso si manifesta alla Biennale di Venezia -la contestazione del ’68, l’appoggio al Cile contro il regime di Pinochet, i perseguitati dal comunismo sovietico- ma se dovessi scommettere su uno schieramento compatto pro-Palestina direi proprio di no. A Venezia si celebra l’arte bella, ci sono le feste nelle case meravigliose sul Canal Grande, accorre il jet set internazionale, si decidono i destini dei sommersi e dei salvati, sono ben altre le ansie dei partecipanti. Una manifestazione simil studentesca si riduce così a un semplice atto di folclore, persino tollerabile nella sua inutilità. Rispetto alle università dove questi signori agiscono indisturbati e con il supporto dei loro professori, qui siete pregati di non dare fastidio, d’accordo manifestate ma sbrigatevi e andate via che abbiamo da fare...