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Quella sartoria è uno scrigno di Diamanti: Ozpetek sceglie di far brillare 18 donne, 18 grandi attrici, e di regalare ad ognuna un meritato lieto fine. Il mondo intorno, la vita (specie quella degli anni Settanta) non è così; il lavoro è riscatto e sacrificio. La libertà è qualcosa che ti guadagni, che costruisci. Ecco, con Luisa Ranieri volevo proprio partire da questo: dentro quel “vaginodromo” (così lo definisce Geppi Cucciari nel film in sala in questi giorni) Alberta è la capoazienda. E per guidare se stessa oltre i limiti della delusione d'amore, ai dolori suoi e altrui, per far eccellere quegli abiti da Oscar serve una corazza.
Spesso, alle donne, serve corazzarsi per emergere: il successo costa di più.
«Alberta non poteva permettersi l'empatia, io sono più morbida. Quella dirigente mi ricorda qualche figura femminile che ho anche vicino. Penso alla mia agente, Moira Mazzantini: una tosta, che si prende cura degli altri a modo suo, senza esternare, senza smancerie, quasi a mettersi una maschera sopra un cuore che batte. Il mio personaggio non poteva permettersi fragilità: alle donne di successo spesso tocca questo destino».
Quella fragilità vietata è figlia di errori di valutazione della realtà, di una delusione d'amore nata perché la realtà non è come ci appare.
«Fa riflettere vedere un personaggio accorgersi che ha cambiato vita per un errore di prospettiva, magari in una storia d'amore. Alberta chiude i battenti, rimanendo in una sorta di costrizione, crea un suo codice: si fa così, si vive così. Citando Sorrentino è come se si ripetesse: non ti disunire. Poi la vita di tira uno schiaffo, il volto si gira e rivedi tutti in modo diverso: quell'amore perduto, una sorella che hai protetto dal dolore col lavoro ma che aveva solo bisogno di un abbraccio dopo aver detto la verità, tutta la verità».
La corazza delle donne di Ozpetek è quel vestito perfetto, geniale – da favola – a cui la sartoria lavora. Un vestito rosso che romperà un incantesimo brutto dettato da un uomo.
«C'è qualcosa di femminista in quella scena che ci parla profondamente. È violento l'atto di chi non accetta la rottura del cliché della creatività: lì è espressa da donne competenti e geniali. Il disconoscimento della costumista geniale mette in crisi la donna per un retaggio del passato: la donna si mette sempre in dubbio, si pone troppi dubbi, ha sempre dovuto faticare di più per avere la sua libertà. Il cliché si rompe perché esiste la diversità. Di quel set, con 18 attrici, si diceva che sarebbe stato difficile da gestire, per una vita ci hanno raccontato la storia della rivalità tra donne, ma è un racconto maschile di chi voleva per le donne solo il destino della gara per accaparrarsi il partito migliore. Chi sposerà l'uomo migliore del paese, quello che ti garantirà il futuro migliore? Ma quel partito non c'è più, per fortuna, le donne si vedono diversamente. Quella roba resta un'idea maschilista, che conserva ancora qualche donna, ma che non rappresenta più noi donne. L'unico buon partito è quello che sei, cosa fai, come ti esprimi. Ha a che vedere col lavoro e con la tua umanità. A noi donne sono richiesti sacrifici superiori, ma io le mie figlie le sto educando in modo diverso, senza questo peso».
E questo manda in crisi i maschi.
«Forse sì, cresce la paura perché il dubbio che ha frenato per tanto tempo le donne finisce nel campo maschile. La leadership nella coppia non era mai stata messa in dubbio così profondamente».
La violenza sulle donne dipende dagli uomini e spesso sono uomini che non accettano la libertà delle donne.
«Le manifestazioni, programmi tv come Amore Criminale che condussi proprio per forte convizione anni fa, hanno senso se si coinvolge la sensibilità degli uomini: l'intelligenza del maschile deve provare disgusto per quei comportamenti, deve sentire forte l'esigenza di dire “io uomo non voglio essere accostato a questi narcisistici”. Serve convincere le madri ad educare uomini sentimentalmente forti e non “machi”. Devono crescere uomini capaci di reggere il confronto col femminile. E sentire l'orrore di vicende come quelle di Impagnatiello che uccide la compagna perché vuole avere un figlio».
Per Luisa Ranieri il 2024 è davvero un anno santo.
«Questo l'ha detto lei, ma sì, è stato un anno in cui sono confluite tante cose. Sono molto contenta di questo momento della mia vita: raccolgo i frutti di tanto lavoro e tanti no. Le carriere si costruiscono più su quello che decidi di non fare, ma se guardo al mio curriculum vedo straordinari compagni di viaggio: Antonioni, Benigni, Celentano, Sorrentino, Ozpetek. Non ho cinquant'anni per nulla, ma i film con Sorrentino e il successo di Lolita Lobosco in tv hanno cambiato la mia posizione artistica e mi hanno fatto sentire amatissima a Bari fino a farmi dedicare una canzone di Serena Brancale, giocando sui miei tacchi a spillo da poliziotta. E nonostante questo, tendo sempre ad avere quell'approccio della giovane attrice che parte da zero, come se non mi sentissi all'altezza... Quando ci penso mi sento un po' infantile, ma per l'anno nuovo ho deciso una cosa».
Una novità per il 2025?
«Voglio essere più carina con me, meno giudicante: sono stata troppo severa con me stessa. Un po' come Alberta che pretende tanto da sé e dagli altri. Dopo anni belli come quelli vissuti, difficile aspettarsi di più: poi mi spaventa quello che c'è intorno alla mia gioia individuale, un mondo così difficile, anni così difficili. Ecco: posso augurarmi cose fatte con amore e una Luisa meno severa con se stessa. Chi si accontenta gode: quanto mi dava fastidio sentirlo dire da giovane, ma adesso...».
Presente e futuro è la vita con Luca Zingaretti: 20 anni pieni pieni.
«Avere un compagno che tifa per te è tutto. Noi siamo quelli che sostengono per primi le scelte dell'altro. Ma non mi ritengo solo fortunata, ho avuto altre relazioni prima e so quanto siano state storie differenti per come Luca è diverso. L'amore ti deve migliorare, la persona vicina ti deve amplificare e non mortificare. Non mi sono mai accontentata di chi mi amava e basta, perché l'amore non basta: amore è una parola. Io volevo una persona con cui condividere tutto, volevo un pensiero diverso per la coppia. Ho fatto un grande lavoro su questa storia. Quella fortuna me la sono costruita con un percorso: siamo partiti in un momento in cui ero una professionista famosa ma non era paragonabile la nostra popolarità. Il tempo che passi insieme non è ingannarlo, il tempo. Meglio soli, se la storia non è come quella tra me e Luca».
Vi confrontate spesso?
«All'inizio no, non c'era la fiducia che c'è ora. Non volevamo essere la coppietta da rotocalco. Luca è stato splendido nel proteggermi, sapeva che avrei pagato il conto di essere considerata la moglie di... Siamo stati attenti fuori e spontanei nella coppia. Ora vedo che compra progetti perché adora vedermi protagonista, ora non ha neanche bisogno di confrontarsi: se hai un'idea su di me, gli dico sempre, vai avanti. Mi fido perché è bello e generoso con me».
In “È stata la mano di Dio” con Sorrentino un nudo di cui si è parlato molto.
«Quel film mi ha regalato la grande tranquillità di capire che 'sto corpo alla fine non è così importante. L'ossessione dell'immagine crea un vuoto intorno: in quella scena quel nudo raccontava quello che c'era dentro il corpo, la follia di una donna. Io mi sono voluta bene su quel set, guardata con un occhio diverso che non aveva a che fare con l'estetica. È stato bello, mi sono detta: quanto ti sei rasserenata, Lui'. Non ho subìto. Quando dico che non vorrei tornare ai 20 anni magari una ragazza ti dice “ma chi te crede...” Però certe sicurezze la bellezza giovanile non può dartele. A venti anni manca quello che c'è dentro quel corpo esposto».
La ragazza giovane era quella della pubblicità iconica “Antò, fa caldo”.
«Se se lo ricorda, vuol dire che ho lavorato bene. È partito tutto da lì, ne sono fiera. Sono passati tanti anni, ma non ho problemi col tempo che è passato. Questo mito dell'eterna giovinezza è sopravvalutato e ci rende infelici».
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