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Ma gli extra-profitti sono un’invenzione

2 mesi fa 1
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Prontamente smentito da Tajani e Salvini, Giorgetti ha anticipato che nella legge di bilancio saranno chiesti sacrifici a tutti, tassando “i giusti profitti”. Facile a dire, difficile da capire cosa siano i giusti profitti. Tanto che il ministro, pur disdegnando – e meno male – il termine extraprofitti, alla fine ne ha dato una definizione non dissimile, dichiarando che la chiamata alla contribuzione sarà per le aziende che operano in settori che hanno beneficiato di particolari contesti di mercato. Le banche ieri, l’industria delle armi oggi. Che siano extra o che siano giusti, cosa li distingue da quelli “normali” al punto da poter rappresentare un nuovo presupposto di imposta?

Se giusto volesse dire ordinario, ci sarebbe poco da girarci intorno: si tratta semplicemente di un aumento dell’imposta, magari in senso progressivo, che le società già versano sui loro redditi. Se si intende un plus di ricchezza rispetto ai profitti ordinari, allora si torna alla categoria dei sovraprofitti, cioè di profitti superiori al normale. Ma quale è e come si stabilisce il profitto normale? La questione non riguarda solo come si fa ad accertare la maturazione di sovrapprofitti nel tempo, cioè rispetto a quelli “normali” nello stesso settore di mercato, ma anche come si fa ad accertare che alcuni settori li hanno generati e altri no. Per ora, le imprese destinatarie di questi tentativi – poco riusciti – di aumenti selettivi di imposte sono quelle del settore energetico, bancario, assicurativo. Il ministro ha citato espressamente l’industria degli armamenti. C’è un che di scontato, in questo elenco, su cui buona parte dei cittadini è senz’altro d’accordo. Eppure, se si togliesse la polvere della retorica e si guardasse a fondo a come dovrebbero funzionare le imposte da un lato, e a come funzionano i mercati dall’altro, si arriverebbe a concludere che non solo gli extraprofitti non sono scontati nemmeno in un mercato che ha beneficiato di una particolare congiuntura, ma anche che l’aumento dei profitti, di per sé, non è un indicatore certo di maggior ricchezza. La crisi energetica dopo l’invasione russa dell’Ucraina ha ad esempio mostrato come la domanda di energia sia molto meno anelastica di quel che si credeva. Ancora, la mancanza di extraprofitti può dipendere da scelte aziendali di reinvestimento, come accade ad esempio nei settori ad alta innovazione. Come si può, quindi, accertare l’elemento speculativo che dovrebbe giustificare la differenza tra un profitto normale e uno non normale? Non si può. Tanto che il ministro stesso si è ben guardato dal riferirsi a quello che non è altro che un costrutto teorico e retorico insieme. Si capirà a breve se “i sacrifici” richiesti a tutti assomiglieranno più a forme selettive di imposta o a un aumento generalizzato, ancorché in modo progressivo, di aliquota per le imprese.

Nessuna delle due ipotesi è auspicabile, ma certo tra l’una e l’altra vi è una differenza sostanziale in termini di arbitrarietà. Tassare presunti sovra– o extra-profitti, immaginando di poter calcolare un delta differenziale tra quel che è normale e quel che è straordinario, vuol dire consentire al governo di tassare quello che vuole e quando vuole, solo inseguendo il vento del populismo fiscale (il settore bancario ieri, della difesa oggi, magari alimentare o turistico domani). Saremmo oltre la discrezionalità fiscale, nel regno del mero arbitrio. La fame di soldi dello Stato, certo, fa fare questo e altro, e non da ora. Spesso, ad esempio, le tasse sulle esternalità negative nascondono semplicemente tasse su specifici consumi, come nel caso della sugar tax sulle bevande analcoliche, ma non su altre categorie di junk food. È probabile che questo governo non potrà mantenere la promessa di non aumentare la pressione fiscale. Quanto meno, che mantenga la promessa di un fisco non ostile, evitando di cadere nella tentazione delle più demagogiche forme di imposizione

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