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BRESCIA. Una scala di ferro bianca separa una sfilza di maritozzi, tartellette e bignè dal laboratorio del pasticciere più noto d’Italia. Alla fine di quei gradini c’è Iginio Massari. Non ha la consueta giacca bianca, ma un completo blu notte. Accanto a lui una dozzina di collaboratori si divide tra il dolce e il salato: «Solo in questi giorni gli ordini si equivalgono», spiega a La Stampa mentre chiude uno sportello rimasto accidentalmente aperto, prima di risalire la scala che lo riporta al banco presidiato dalla moglie Mary.
Qui, a Brescia, la pasticceria si chiama ancora «Veneto» e non «Galleria Iginio Massari», come invece accade nelle altre città in cui in questi anni ha aperto. «Per avviarla, nel 1971, firmai un bel pacco di cambiali: fu un grande esercizio di scrittura», racconta. La storia di Massari col dolce, ora finita nell’autobiografia Giorni mesi anni di una vita intensa (Baldini+Castoldi), inizia però molto tempo prima, con una millefoglie con la crema bavarese preparata dalla mamma: «Avrò avuto tre-quattro anni quando la assaggiai per la prima volta e la ricordo ancora oggi: un gusto imbattibile, almeno nel pensiero».
Sua madre Rachele aveva una piccola trattoria.
«Con, annessa, una minuscola gelateria. I carrettieri che passavano alle quattro del mattino le vendevano il latte con cui preparava il gelato in bacinelle di terracotta smaltata. Una mattina, ero piccolissimo, ci caddi dentro. Si vede che il dolce era il mio destino».
E suo padre?
«Era il responsabile della mensa dei ferrovieri in città, fino a quando una malattia lo costrinse a letto per un anno. Delegò la gestione a un collaboratore: dopo un controllo si scoprì un ammanco di cento milioni. Dovemmo vendere tutto e andare via».
Aveva 14 anni. Andaste in Svizzera.
«Partimmo dalla stazione di Brescia con un treno a carbone. Fu un viaggio lunghissimo: 250 chilometri in 12 ore, arrivammo tutti sporchi di fuliggine. E io iniziai a lavorare come panettiere-pasticcere nel Giura bernese».
È lì che, come racconta nell’autobiografia, si scoprì pugile.
«Correvo in bici e in inverno mi allenavo in palestra per potenziare le gambe. Incrociai uno svizzero che mi disse: “Italiano, quanto mi piacerebbe spaccarti la faccia”. Andai dritto sul ring: il giovanotto restò in piedi poco più di trenta secondi. L’allenatore si avvicinò: “Molla la bici, domani vieni qui”. Ma durò poco, rimasi solo una promessa».
A Brescia tornò a venti anni e conobbe sua moglie Mary.
«Era giovane, bella e veloce come una gazzella: si occupava delle vendite della pasticceria dove entrambi lavoravamo».
Fu amore a prima vista?
«No. Detestava la mia voce e anche la mia ironia. Grazie a Dio, cambiò idea due-tre mesi dopo».
Nel libro dedica diverse pagine alle torte nuziali, ma al suo matrimonio si scordò di farla.
«Se ne accorse Mary, due giorni prima delle nozze: rimediammo con una millefoglie preparata dai suoi colleghi».
Passarono tre anni e, nel ’71, apriste la vostra pasticceria.
«Era blu e lilla, due colori allora all’avanguardia. Avremmo dovuto inaugurarla il venerdì, ma mia moglie - che ha sempre giurato di non essere superstiziosa - fece di tutto per anticipare a giovedì pomeriggio».
Poco dopo, però, pensò di venderla.
«Volevo dedicarmi all’immobiliare, in cui peraltro per un po’ ho continuato a lavorare. Eravamo già davanti al notaio, quando Mary iniziò a piangere. Bloccai tutto e mi tenni la pasticceria».
In quei mesi nacque Debora, la prima dei vostri due figli, che ormai da tempo lavorano con voi. È vero che per anni li ha stipendiati come operai di quinto livello?
«Questo lo dicono loro! Io volevo solo che dominassero ogni aspetto del settore. Anche perché, se devi dire a uno che una teglia non è pulita, devi prima imparare a strofinarla».
Prima di aprire la sua pasticceria, ha lavorato in grandi aziende dell’alimentare. Qual è la differenza principale con l’artigianato?
«L’importanza della comunicazione. Già mezzo secolo fa la Star, con cui ho a lungo collaborato, spendeva il 13% del fatturato in pubblicità».
Proprio alla Star conobbe un giovane Oliviero Toscani.
«Ci litigavo sempre: era un comunista sfegatato. Si occupava delle immagini di piselli e pelati, gli dicevo: “Non voglio una foto tecnica, voglio una foto appetibile”. Quando, 35 anni dopo, l’ho rivisto, ha sbottato: “Tu sei quel rompiscatole che mi metteva sempre i bastoni tra le ruote!”».
Tra gli chef di cui è stato amico c’era anche Gualtiero Marchesi.
«Grande professionista e grande comunicatore in tempi in cui gli altri ancora non lo erano. Ci legava la passione per il minestrone: quando veniva a Brescia, mangiavamo sempre quello cucinato da mia moglie».
Ha ottenuto centinaia di riconoscimenti e scritto un’infinità di ricettari e manuali. La pasticceria è un ambiente pieno di rivalità?
«Ho sempre preferito essere invidiato che compatito. Ma sa che, a un certo punto, hanno scritto sul web che la mia crema pasticcera era vomitevole?»
Vomitevole?
«Sì. Si sono nascosti nell’anonimato ma siamo riusciti a individuarli e abbiamo devoluto il risarcimento in beneficenza».
Ad agosto ha compiuto 82 anni. Non si sente stanco?
«Niente affatto. Un’impresa è come un neonato da accudire. Ancora oggi mi sveglio ogni giorno alle due e mezzo del mattino e vado in laboratorio».
Nel 2018 avete aperto la pasticceria di Milano. Poi è stata la volta di Torino, Verona, Firenze e Roma. Quanti siete oggi?
«Qui a Brescia una trentina, in tutto più di duecentocinquanta».
Come fa a controllare tutto?
«Una volta son qua, una volta son là. Ho la fortuna di avere due figli in gamba. E poi, ovviamente, serve delegare, ma sempre con riserva».
Ma in pasticceria conta più il talento o il carattere?
«Entrambi. Ma il vero talento è come il denaro: chi ce l’ha non sa d’averlo e di solito sono sempre gli altri a farglielo notare».
Come si conciliano tradizione e sperimentazione?
«Noi mangiamo quello che siamo, non quello che eravamo, anche perché le materie prime cambiano sempre. Prenda gli zuccheri: oggi in certi prodotti li abbiamo ridotti dell’80%».
Programmi come Masterchef, di cui da sempre è ospite fisso, hanno aiutato?
«Sì, anche tra i professionisti: abbiamo conosciuto prodotti che non sapevamo neanche esistessero».
Maestro, sono giorni di festa: non può non darci una ricetta. Facile però.
«Prendete una zuppiera, tagliate a cubetti un panettone, inzuppatelo nel maraschino o nel whisky. Poi alternate uno strato di crema al cioccolato e uno di vaniglia, separati da due strati di cubetti. Terminate con la panna montata in superficie. Fatelo girare a tavola con un cucchiaio: vedrete che allegria».