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Meloni al bivio su Cecilia Sala. “Le ore più lunghe da premier”. La carta della visita di Biden

4 giorni fa 2
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ROMA – È il “momento Sigonella” di Giorgia Meloni. Così, senza troppo girarci intorno, lo definiscono i funzionari del governo, soprattutto i più anziani che ricordano la notte nel 1985 in cui Bettino Craxi disse no agli Stati Uniti d’America. L’allora premier socialista si oppose alla presidenza di Ronald Reagan che, sulla base dei vincoli dell’Alleanza atlantica, pretendeva l’immediato trasferimento dei terroristi palestinesi che avevano assassinato un cittadino americano, ed erano bloccati nella base aerea di Sigonella.

La scelta che è chiamata a compiere Meloni la pone di fronte a un bivio: fare come il predecessore, e non consegnare l’ingegnere iraniano Mohammad Abedini-Najafabadi a Washington, cosa che potrebbe portare a uno strappo con gli alleati, o dare seguito alla richiesta di estradizione?

È una scelta che ha un peso politico significativo ma anche una particolare drammaticità, perché ogni valutazione deve tenere conto del fatto che una giornalista, Cecilia Sala, è prigioniera in un carcere, usata come pedina di scambio dal regime di Teheran. Meloni ha confidato ai suoi più stretti collaboratori la difficoltà di queste ore: «Forse è uno dei momenti più complicati da quando sono premier», ha detto, senza nascondere l’emozione provocata dall’incontro con la madre di Cecilia.

Le ragioni di Stato si mescolano a quelle di una più urgente umanità, che impongono di portare via Sala dal terribile carcere di Evin, almeno per trasferirla nella ambasciata italiana in Iran. «La nostra priorità è questa», assicurano fonti del ministero della Giustizia e degli Esteri.

(afp)

Ed è quello che Meloni ha intenzione di riferire personalmente a Joe Biden l’11 gennaio, nel colloquio che la premier avrà con il presidente uscente, in visita a Roma dal papa, un viaggio di fine mandato fortemente sentito dal cattolico democratico. La coincidenza del calendario è tale che la premier farà di tutto per sfruttare questa opportunità, anche se il dialogo tra Italia e America continua a livello di intelligence e di diplomazia.

Le prossime due settimane sono cruciali. Il 15 gennaio si esprimerà la Corte d’appello di Milano sui domiciliari richiesti dalla difesa dell’iraniano detenuto a Opera, perché accusato dal Dipartimento di Giustizia americano di aver dato sostegno tecnologico ai terroristi che hanno ucciso tre americani in Giordania un anno fa.

L’altro ieri la Procura generale ha espresso parere negativo. Se i magistrati confermeranno l’indicazione, sul tavolo resterà solo l’opzione politica. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha il potere di revocare la misura cautelare, il che farebbe venire meno le ragioni della detenzione e della conseguente estradizione.

Al ministero stanno analizzando ogni scenario, studiando le carte dell’inchiesta americana nella speranza di cercare un appiglio ragionevole per opporsi agli Usa, minimizzando il più possibile l’impatto sulle relazioni diplomatiche.

Un’ipotesi si baserebbe sulle prove a suo carico: nel governo sostengono che non ci sarebbero evidenze dirette dell’appartenenza di Abedini ai pasdaran dell’Ircg - Corpo delle Guardie rivoluzionarie inserito da Washington nella black list dei gruppi terroristici - anche se nell’articolo qui accanto La Stampa riporta l’indagine dell’intelligence Usa, in cui l’ingegnere figura tra i consulenti dell’Ente di ricerca per l’autosufficienza del jihad.

Meloni e Nordio sanno che, dopo il 15 gennaio, avranno pochi giorni per prendere una decisione. Il 20 gennaio giurerà Donald Trump e comincerà un’altra storia. Nel governo si parla apertamente della necessità di agire prima, anche assumendosi il rischio di scaricare l’intera responsabilità sull’amministrazione uscente e sui vertici delle agenzie targati Biden.

I servizi italiani e la diplomazia hanno già posto la questione «della priorità di salvare la ragazza», portando a esempio quello che gli americani hanno fatto con la cestista Usa Brittney Griner, liberata dai russi in cambio del trafficante di armi Viktor Bout. Ma serve una copertura politica. Meloni porrà la questione a Biden, assicurano fonti del governo.

Non è una decisione facile, perché espone l’Italia all’ovvia accusa di aver ceduto al ricatto degli iraniani. Anche per questo, ragionano i diplomatici, ieri il regime degli ayatollah ha ribaltato l’accusa sugli Stati Uniti tramite il messaggio recapitato all’ambasciatrice italiana Paola Amidei, convocata in mattinata da Majid Nili Ahmedabadi, dg per l’Europa occidentale del ministero degli Esteri: «Roma rigetti la politica sugli ostaggi degli Stati Uniti e crei le condizioni per il rilascio.

L’Italia non lasci che i nostri legami vengano indeboliti dagli americani». Il giorno prima era stato il ministro Antonio Tajani a convocare l’ambasciatore iraniano a Roma. È una dinamica precisa, un confronto simmetrico, in cui non deve prevalere nessuno, e nessuno deve uscirne umiliato. Anche per questo la mattinata di ieri a Palazzo Chigi è stata molto turbolenta.

I negoziatori di Teheran non hanno apprezzato la lettura della sfida a un regime all’angolo che abusa dei detenuti, mentre l’Italia garantisce il massimo dei diritti a un cittadino iraniano. L’appello al silenzio stampa dei genitori di Sala, condiviso con Meloni e con l’intelligence, nasce da questa irritazione.

La trattativa sembra ancora lunga e complicata, e non si esclude nessuna delle altre strade ipotizzate, compresa la possibilità di estradare Abedini in Svizzera, in forza del passaporto elvetico. La Confederazione è la terra neutrale dei negoziati iraniani con l’Europa e con l’Occidente. Ed è a Ginevra che i diplomatici immaginano un incontro a livello di ministri degli Esteri che metta - si spera prestissimo - la parola fine al caso di Cecilia Sala.

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