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Nell’ottobre del 1999 lo scrittore Paul Auster ebbe un’idea: chiese agli americani di mandargli delle storie che poi lui avrebbe letto alla radio in un programma chiamato National Story Project. In un anno ne ricevette oltre 4mila: brevi, vere e personali, inviate da uomini e donne provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti, gente di campagna e di città, vecchi e giovani, contadini e preti, casalinghe ed ex soldati, uomini d’affari e medici, postini e idraulici, un restauratore di pianoforti, un autista di filobus e diversi detenuti in istituti penitenziari statali. «Già all’inizio notai una tendenza netta e sorprendente», scrive Auster in un articolo sul New York Times del 2002, per commemorare il primo anniversario dell’undici settembre. «L’unica città di cui tutti volevano parlare era New York. In quasi tutte le storie, New York non era semplicemente lo sfondo degli eventi raccontati. Era l’argomento della storia stessa. New York pazza, New York ispiratrice, New York irritabile, New York brutta, New York bellissima, New York impossibile: New York come laboratorio di contraddizioni umane. Nel corso degli anni l’America ha avuto un rapporto tormentato, perfino antagonistico, con la città, ma per un numero sorprendente di persone provenienti da Michigan, Maine e Nebraska, i cinque distretti sono l’incarnazione vivente di ciò che sono gli Stati Uniti: diversità, tolleranza e uguaglianza davanti alla legge. Unica tra le città americane, New York è più di un semplice luogo o un agglomerato di persone. È anche un’idea».
«La New York che racconta Auster è una New York di quartiere, un luogo dove un abitudinario come lui si trova benissimo», racconta Giorgio Biferali. Romano, scrittore, profondo conoscitore del lavoro di Auster ed esperto di cultura pop, nel 2022 ha anche lui un’idea: andare nella Grande Mela non da turista, ma da esploratore culturale, alla ricerca dei luoghi che il suo eroe descrive, vive e in cui fa vivere i suoi personaggi, un po’ per capire il rapporto tra Auster e la città, un po’ per guardare con occhi nuovi un luogo già visto attraverso una innumerevole lista di film e serie tv. Il risultato è un libro intitolato A New York con Paul Auster (Giulio Perrone Editore) che non è una guida ma neanche un saggio o un romanzo: è un’esperienza, un insieme di ricordi, di storie, perché come dice Auster «tutti vogliamo che ci raccontino delle storie, e le ascoltiamo come facevamo da bambini. Dentro le parole immaginiamo la vera vicenda, e a tal fine ci sostituiamo ai personaggi fingendoci capaci di comprenderli perché comprendiamo noi stessi. È una mistificazione».
Nella realtà Biferali parte con itinerari di senso e con delle tappe già prefissate: la Columbia University, dove Auster ha studiato e dove ha assistito alle proteste studentesche contro la guerra in Vietnam; Central Park, perché è dove va a dormire per un periodo Marco Fogg, protagonista di Moon palace, e finisce a scoprire che il parco rappresenta «il luogo ideale dove poter fuggire dalle regole, dai divieti, dalle norme imposte dalla società, che anche quella è New York, sì, solo che è diversa da quella che aveva conosciuto fino a quel momento»; Grand Central Station perché è lì che Quinn in Trilogia di New York va a cercare, tra i passeggeri che scendevano dai treni, quello che avesse la faccia di Stillman; Brooklyn perché è dove l’autore americano ha vissuto a lungo. «Esserci arrivato dieci giorni prima della sua morte (avvenuta il 30 aprire 2024, ndr) ha aggiunto al libro questa sensazione di incontro mancato», spiega Biferali.
Nato a Newark, in New Jersey, a New York Paul Auster ci arriva da adulto, con una decisione cosciente, dopo un periodo trascorso in Francia. «Ho scelto di vivere qui, nessuno mi obbliga», raccontava spesso nelle interviste riferendosi in particolare a Brooklyn, il quartiere dove si era trasferito nel 1982 con la scrittrice Siri Hustvedt, sua seconda moglie. Quarant’anni trascorsi nella stessa brownstone – le tipiche case indipendenti – con gli stessi rituali, gli stessi percorsi, la stessa vista. Grazie alla presenza sua e di Siri, per un periodo Brooklyn diventa il centro della nuova narrativa americana, il luogo dove nel giro di pochi isolati si incrociano alcune delle menti letterarie più brillanti - Jonathan Safran Foer e Nicole Krauss (quando erano ancora sposati), Jhumpa Lahiri, Colson Whitehead, Susan Choi - una comunità fatta anche di librerie, caffè, luoghi di ritrovo e di cui Auster è considerato il padrino. «Nei suoi primi libri c’è un’idea di New York molto da romanzo giallo - continua Biferali - una babele piena di lingue dove la comprensione è difficile. Più avanti prevale invece la dimensione rassicurante del quartiere, un luogo dove tutti conoscono tutti, dove lui va a comprare le sue penne e i suoi quaderni su cui scrivere i libri a mano sempre dallo stesso negozio gestito da un cinese e con commesso messicano».
Lui che a New York è arrivato, ci ha vissuto e ci è morto, ha spesso usato la città non solo come uno sfondo scenografico, ma come un vero e proprio strumento per la costruzione dell’identità dei suoi personaggi, in un processo che Mark Brown definisce come un passaggio da «una posizione di nichilismo urbano a una di ottimismo qualificato per le forme di vita sociale e comunitaria nella metropoli contemporanea». «Si dice spesso che New York non sia la vera America - chiarisce Biferali -, ma per certi versi è la città più americana di tutte, l’unica dove l’idea di America si è compiuta davvero. Auster la descrive spesso come un luogo post apocalittico, senza speranza, ma poi la difende anche, dicendo appunto che è un luogo dove convivono pacificamente religioni, etnie, persone. Le sue storie non potrebbero essere ambientate da nessun’altra parte perché quelle che racconta sono tutte storie di rinascita, di redenzione di personaggi soli che si salvano proprio grazie agli altri, quando entrano in contatto con altri esseri umani».
Una città fatta a misura di scrittore perché è una città fatta per camminare, un’attività di cui Auster ha disperato bisogno per poter fare quello che fa. «È camminare che ti porta le parole – scrive l’autore in Diario d’inverno –, che ti permette di sentire il ritmo delle parole mentre le scrivi nella tua mente. Scrivere incomincia nel corpo, e la musica del corpo». «Passeggiare per le strade ciottolate di Brooklyn domandandosi quale fosse casa sua, quale fosse la sua finestra, è stato emozionante - conclude Biferali -. Così come trovarsi davanti il Palazzo dell’Onu o camminare e perdersi per Broadway, la via che attraversa quasi tutta Manhattan. Georges Perec nel libro Specie di spazi scrive che “al contrario dei palazzi che appartengono quasi sempre a qualcuno, le strade in linea di massima non appartengono a nessuno”. Ecco, camminare per Broadway ti fa sentire proprio così: di essere in una cittàche appartiene a tutti, e che quindi non appartiene a nessuno».