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Nelle mani di Hamas, Tamar Metzger: “Rapita, legata a una moto poi nei tunnel. I miei 50 giorni nella Gaza sotterranea”

6 mesi fa 5
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TEL AVIV. Gli occhi di Tamar Merzger sono rivolti verso la televisione accesa in casa di suo figlio Guy, a Kyriat Gat, ma il suo sguardo è altrove. È fermo a Gaza, al giorno del suo rilascio alla fine di novembre dopo più di cinquanta giorni di prigionia.

Il 7 ottobre Tamar, che tutti chiamano Tami, era a casa sua nel kibbutz Nir Oz con suo marito Yoram, 80 anni. L’ultimo messaggio che è riuscita a mandare ai suoi figli diceva: «Finora tutto bene». Poi più nulla. Tra quel messaggio e la sua detenzione Tamar è stata rapita da cinque uomini armati, prima le hanno chiesto soldi, poi l’hanno portata fuori, stesa a terra, legata a una moto che l’ha trascinata per centinaia di metri. Ricorda il terrore, il viso pieno di lividi, il sangue che veniva giù da tutto il corpo, sulle sue gambe porta ancora i segni di quei momenti.

Quando la moto si è fermata ha sentito una voce femminile chiamarla per nome e ha riconosciuto Nili Margalit, una sua vicina, infermiera che viveva come lei da sempre nel kibbutz.

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Tami riusciva solo a pensare a suo marito, delle cui sorti non sapeva nulla. I miliziani le hanno portate all’imbocco di un tunnel, consegnate a un altro gruppo armato dopo una breve conversazione che, secondo Tamar, era una contrattazione tra loro.
Poi le donne sono state fatte scendere sottoterra e hanno camminato scalze, al buio per lungo tempo. Tamar, che soffre di asma, faticava a respirare e riusciva a farlo solo sorretta da Nili.
Di quel percorso ricorda due cose: un miliziano che le dice «Benvenuti nella Gaza sotterranea» e l’unica area illuminata che ha incontrato prima di arrivare alla cella dove i miliziani erano seduti di fronte a una serie di computer accesi.
Quando sono arrivate nella stanza dove avrebbero trascorso settimane hanno trovato altri venti ostaggi stesi a terra, tra loro anche il marito di Tami, Yoram.
I suoi ricordi sono molto precisi, il racconto denso di dettagli. Parla non solo per testimoniare ma anche come chi ha paura di dimenticare quello che ha vissuto.
Nella stanza della Gaza sotterranea nessuno sapeva se fosse giorno o notte, perdere il senso del tempo, confondere i giorni ha aumentato la preoccupazione, la fatica e il nervosismo.

C’erano lunghi momenti in cui provavano a parlare della storia, persino del cinema, per non pensare a cosa sarebbe stato di loro, e c’erano momenti ancora più lunghi in cui Tamar riusciva solo a tacere per ore e contare le mattonelle sul muro di fronte a lei.
Uno degli ostaggi con cui ha diviso la prigionia era un professore universitario che non riusciva ad avere notizie sui suoi cari.
Finché è stata lì nessuno dei miliziani ha risposto alle sue domande sul destino di sua moglie e dei suoi ragazzi.
Erano sorvegliati da tre ragazzi a cui avevano dato un soprannome. Il “Responsabile”, il “Frigorifero”, il giovane che portava il pane, e l’“Elettricista” che talvolta portava delle lampade a led per dare loro un po’ di luce.

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Poi pian piano non ce n’è stata più. Ricorda solo il buio e la fame.
E trattiene un ricordo, nitidissimo: «Un giorno i bombardamenti erano veramente intensi, i missili dell’Idf hanno colpito il nostro edificio e i miliziani ci hanno spostato in un altro tunnel. C’era una bambina di cinque anni, figlia della mia vicina Daniella. Quando sentiva le pareti tremare cominciava a correre come un insetto impazzito, sembrava non sapere cosa fare di se stessa».

Alla fine di novembre un miliziano è entrato nella loro stanza e le ha detto di raccogliere le sue cose e prepararsi perché era sulla lista dei rilasciati. Suo marito Yoram invece no. Le ultime parole che le ha detto sono state: «È meglio che tu vada». Non hanno potuto abbracciarsi, non si sono toccati prima che lei andasse via.
Tamar poi è stata consegnata alla Croce Rossa, di quei momenti ricorda la folla di palestinesi intorno ai mezzi, il suo corpo lì, il suo cuore da Yoram.

È rientrata in Israele, è stata trasferita allo Sheba Hospital ed è incominciata la vita da ex-ostaggio che spera, vuole, deve salvare la vita di suo marito.
L’opposizione al governo Netanyahu non è una cosa nuova nella famiglia Metzgel, sua nuora è una delle leader del movimento che guida le proteste di Tel Aviv e che chiedono le dimissioni del Primo Ministro.
Proteste che dall’inizio dell’offensiva militare su Gaza hanno assunto, per tutti loro, il senso della sopravvivenza del capofamiglia, chiedono da nove mesi un accordo immediato con Hamas per liberare gli ostaggi rimasti a Gaza.

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Il primo segno di vita che hanno avuto di Yoram risale a dicembre. Un video in cui tre ostaggi anziani chiedono il rilascio di tutti i prigionieri.
Tami dice che quando ha visto il video, le condizioni fisiche di Yoram, ha capito che era finita.
Da quel momento mesi di silenzio: «Un giorno è arrivato un ufficiale dell’intelligence dicendo che non avevano più notizie di Yoram, poi alcune settimane dopo è tornato a confermare che era stato dichiarato morto».
Era il 3 giugno scorso.

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Nessuno dei membri del governo le ha fatto visita, né dopo che è stata liberata né quando è stato certo che Yoram non fosse più sulla lista degli ostaggi ma su quella dei caduti, per questo quando Tami ha visto Netanyahu complimentarsi con i soldati che hanno liberato i quattro ostaggi durante l’offensiva di Nuseirat che è costata la vita a 200 palestinesi, e con gli ostaggi stessi in ospedale, è esplosa. In un’intervista alla televisione israeliana, la settimana scorsa, ha detto: «Capisco la gioia della nostra gente, ma abbiamo un governo senza cuore, se avessero posto fine alla guerra mio marito sarebbe ancora vivo». E ha poi aggiunto: «Mentre ero in prigionia pensavo solo, se esco sparo in fronte a Netanyahu». Il giornalista che conduceva l’intervista ha preso le distanze, e Tami ha concluso così il suo intervento: «Netanyahu non ci sente e non ci vede. Se avesse un cuore e un’anima, forse ci sentirebbe. Ma non lo fa».

Non riesce più a dormire né a mangiare, il suo corpo e il suo viso sono scavati.
«Il governo ha abbandonato gli ostaggi, non ha alcun interesse a liberarli. Vogliamo i vivi indietro, vogliamo il corpo di Yoram. Non possiamo andare avanti senza di loro. Non possiamo ricostruire né noi stessi né la nostra società senza averli tutti indietro, i vivi e i morti».
Ricorda, prima di salutarci, che una cosa accomunava tutti gli abitanti di Nir Oz che dividevano la prigionia con lei.
Nessuno di loro avrebbe voluto che fossero altri civili, i palestinesi, a pagare con la vita il prezzo della loro liberazione.

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