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Papi: “Per inseguire la diversità abbiamo perso l’uguaglianza”

6 mesi fa 7
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A Giacomo Papi l’idea de La piscina è venuta in un resort di Zanzibar. «A un certo punto mi sono reso conto che c’erano almeno dieci inservienti per ogni turista e tutto era militarizzato per un problema di ribelli islamici. A ogni passo ti dicevano “gimbo”, “gimbo”. Mi sono messo a immaginare cosa sarebbe successo se si fossero ripristinate le proporzioni giuste. E come ci saremmo comportati». Ma ambientare a Zanzibar un romanzo giallo sulla lotta di classe non era cosa semplice e così l’autore del Censimento dei radical chic – caso editoriale da 50mila copie – ha immaginato un castello in Umbria, una piscina che fu di Gheddafi, un Maestro grande artista esperto di disinstallazioni e una corte sgangherata, ma molto molto realistica.

Un romanzo comico, satirico, anche questo pieno di radical chic.
«L’ho avvicinato a un mondo che conosco meglio, un po’ Chiantishire. Volevo divertirmi facendo una cosa alla Agata Christie. Del resto tutti i gialli sono sulla lotta di classe, non a caso si dice sempre che l’assassino è il maggiordomo. Quel genere nasce in Inghilterra alla fine dell’Ottocento come strumento di auto-rassicurazione di una classe che si sentiva minacciata dai servitori e dai poveri».

Storie di delitti auto-rassicuranti?
«Anche se il delitto è possibile, con l’arguzia dell’investigatore l’ordine viene ristabilito. È questo che rassicura».

L’investigatore de La piscina non appare molto arguto.
«No, ma sono fiero del fatto che sia un investigatore per niente giustizialista. Non è convinto che consegnare il colpevole riporti l’ordine nel mondo, non pensa che la giustizia umana possa riparare al male compiuto».

E lei?
«Neanche io. Il carcere non ha niente a che fare con la giustizia. Può avere a che fare con l’autodifesa, in qualche caso. E ha di certo a che fare con il potere, è un modo per ribadire dove sta il potere».

E quindi per quanto comico, satirico, esilarante, questo è alla fine un romanzo politico.
«Lo è nel senso più profondo del termine. Parla della differenza tra ricchi e poveri, dello stare insieme e di una cosa che secondo me è molto importante: la tendenza a formare corti è ancora più ancestrale della tendenza a formare tribù. Intorno a una persona ricca e potente si formano sempre delle corti e lì le passioni umane, anche quelle più miserabili, vengono fuori».

Nelle corti, spesso anche nei partiti, si avanza per affiliazione e prevalgono i mediocri.
«Ne ho frequentata qualcuna e posso dire con relativa certezza che per sopravvivere in una corte le virtù richieste sono, in realtà, vizi».

Quali?
«Avidità, furbizia, capacità di fregare gli altri, piaggeria».

A differenza di Happydemia, non ci sono personaggi direttamente riferibili a politici esistenti. Come mai?
«Perché le nuove leve mi divertono poco. Non sono interessanti come il primo Conte o il primo Salvini, che avevano un portato rivoluzionario, con quell’idea di considerare l’ignoranza semplicità e la cultura imbroglio. Un concetto ambiguo che aveva un portato rivoluzionario perché metteva in discussione uno degli elementi base delle democrazie occidentali che viene dall’illuminismo: la cultura come valore».

In cosa è diversa la nuova destra?
«Mi pare di scorgere in loro una sorta di invidia della cultura, spesso scimmiottata. Hanno la coscienza e l’orgoglio di essere i discendenti di un periodo culturalmente ricco, il fascismo fu tutt’altro che disinteressato alle correnti culturali. Ma inseguono quel modello senza essere all’altezza dei loro ispiratori: non c’è un Malaparte oggi, un Prezzolini, un architetto di fama che si riconosca in questa destra. Anche perché non hanno investito in cultura come invece aveva fatto Mussolini anche grazie alla sua ispiratrice Sarfatti».

Però continuano a definire gli avversari radical chic.
«Mi sembra che utilizzino il termine in modo diverso. Rimproverano alla sinistra di essere élite senza esserselo meritato, di non aver lottato, di essere in fondo dei mollaccioni che non hanno dimostrato il loro valore sul campo. Nella cultura di destra c’è quest’idea da congregazione con i duelli, le prove iniziatiche».

L’idea dell’underdog che combatte ed emerge.
«Sto pensando a una possibile continuazione del censimento dei radical chic con quelli di sinistra obbligati a fare i sabati fascisti, a tirare di scherma. Poi però anche quelli di destra sarebbero chiamati a mostrare il loro valore».

La piscina è un grande affresco che mostra quanto la diseguaglianza estrema sia ridicola, grottesca, assurda, eppure inamovibile, accettata.
«È così e non ho alcuna speranza che questa cosa possa strutturalmente cambiare. Penso che si possa migliorare, che dobbiamo lottare per farlo, ma non credo in una rivoluzione. Le classi esistono anche se, da noi, nessuno pensa di farne parte. E la lotta di classe continua anche se nessuno lotta più».

Ne La piscina un colpo di scena ribalta la situazione: i servi diventano padroni, i cortigiani sono costretti a servirli. C’è la rappresentazione di una lotta di classe grottesca e senza scampo.
«Scrivendo questo libro credo di aver capito questo: l’altro giorno sono sceso in metro a Milano e c’era una pubblicità dell’Atm, “Noi crediamo nel valore della diversità”. Ho pensato che una volta si sarebbe detto: “Noi crediamo nell’uguaglianza”. C’è una tale enfasi sulla diversità, sull’unicità di ogni individuo, una targetizzazione che crea delle nicchie di mercato sempre più strette. E questa enfasi cancella l’unico ideale che può mettere in moto la storia: l’uguaglianza. L’essere tutti uguali tra uomini donne omosessuali ricchi poveri. Mi pare che sia questo che è stato messo in discussione, temo che venga considerato un ideale passato e anche un po’ noioso. L’enfasi è tutta sulla differenza, ma a furia di cercarla si arriva all’individuo».

E l’individuo, da solo, non può niente.
«È il problema della sinistra. Guardiamo alla Francia, si sa benissimo chi ha vinto, ma all’interno di quel fronte ognuno certifica la sua diversità, cerca un’identità sempre più precisa, e così si arriva all’esplosione».

Vale ancora la frase di Marx che usa in epigrafe: il denaro è l’unico grande sovvertitore?
«Il denaro o anche l’apparenza del denaro. La differenza mi sembra questa. Perché oggi la ricchezza può essere noleggiata, ci sono società che ti vendono la possibilità di simulare di essere ricco. E l’apparenza della ricchezza è uno dei motori della storia e della rabbia».

Non potrebbe arrivare un moto di ripulsa, davanti a tutta questa ostentazione e superficialità?
«Un po’ si vede già, ma come dice Florin nel romanzo: ci si può spogliare di tutto solo quando si è vestiti. La ripulsa è il moto di chi ha qualcosa, o troppo. Ho sempre visto un limite nella sinistra italiana: l’amore per i poveri finché restano tali. Se non lo sono più, se entrano nel mondo del consumo, comprano cose di cattivo gusto, allora è come se tradissero».

Il problema della sinistra è davvero il senso di superiorità che la destra denuncia?
«Noi ci sentiamo superiori e pensiamo di essere dalla parte del giusto. Questa è una cosa che fa arrabbiare e allontana. Ci offendiamo quando persone magari meno acculturate dicono cose lontane dalla nostra idea di giustizia, come se facessero un danno a noi. E questa è un po’ la base del successo di Meloni. Per Salvini è diverso perché lui è un radical chic mancato».

In che senso?
«Andava al Manzoni, da ragazzo era comunista, si sarà sentito respinto da quel mondo. Ma tornando alla sinistra, il senso di superiorità è esattamente quello che non può permettersi di avere: non puoi sentirti superiore a quelli che vuoi rappresentare. Puoi sentirti più attrezzato, più abile, più forte, più leader, ma non puoi sentirti moralmente superiore».

Ricorda quello che Klaus dice alla ragazzina preoccupata del mondo e del suo ingresso a SciencesPo.
«“Vuoi la pancia piena e la coscienza a posto e non hai diritto a nessuna delle due”. E però lei è un personaggio positivo, io credo sia un bene riconoscere l’ingiustizia del mondo e volersene occupare».

Però non esita a segnalare contraddizioni e ipocrisie. E questo rende il libro tanto divertente quanto disturbante.
«Mi fa piacere».

Come?
«Ho amici che mandano i figli nei campus in Messico tra i poveri due settimane e poi li iscrivono a college londinesi da decine di migliaia di euro. Diciamo questo: ci sono due modi di fare satira. Uno è quello di Grillo, di Crozza, prendere per il culo qualcuno e radunare attorno a sé una massa di ghignanti. Un altro è alzare uno specchio davanti a te stesso e a chi ti sta dietro e guardarci dentro».

Come Jonathan Swift.
«Come quando Swift in A Modest Proposal lanciò l’idea di mangiare i figli dei poveri per risolvere il problema della carestia in Irlanda. E non tutti capirono la presa per il culo. Mi piace l’idea di non dare mai al lettore una consolazione vera».

Anche i cattivi non lo sono mai interamente.
«Capisco e voglio capire anche le meschinità degli esseri umani. Una persona può avere i pensieri più orrendi e comportarsi bene e viceversa. Non è che i ricchi siano cattivi e i poveri buoni, non c’è manicheismo nel romanzo».

A tratti sembra di vedere Parasite, o Triangle of Sadness.
«Sono film usciti mentre stavo già scrivendo. Il che mi fa pensare che questo tema è nell’aria, dalla Corea del Sud alla Svezia. In realtà i miei riferimenti cinematografici erano Invito a cena con delitto e Gosford Park. Mi era successo anche con il mio romanzo, I primi tornarono a nuoto. Poco dopo la pubblicazione uscì la serie The Revenant che sembrava parlare della stessa cosa».

Qual è il tema nell’aria?
«Viviamo in un’epoca in cui, come in tutte le epoche di grande rivoluzione tecnologica, le differenze tra ricchi e poveri diventano insostenibili. Quello che è successo da vent’anni a questa parte è un accumulo di ricchezza insensato nelle mani di pochi e un progressivo depauperamento di massa del mondo. Questa cosa qui non ha trovato mai una sintesi politica, ma è evidentemente lo scandalo del nostro tempo».

Lei in un’intervista ha detto che ci si aspetterebbe più rabbia sociale di quella che c’è.
«Perché ai poveri si vende la possibilità di sembrare ricchi. Invece di farli incazzare, gli si dice: vieni qui a farti un selfie, comprati a noleggio le Nike. La rabbia sociale è talmente tenuta fuori che non la vediamo neanche, si esprime quando le periferie votano in massa Trump, Meloni o Bardella. Contro qualcosa, più che per qualcuno. Il circenses di oggi è riuscire a venderti l’illusione della ricchezza distribuita in una miriade di occasioni di apparenza. È un sistema diabolico del capitalismo, forse non del tutto negativo. Una grande illusione».

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