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Era il 2016 quando sugli schermi italiani era esploso il fenomeno “Perfetti sconosciuti”, film che denunciava in forma di commedia quanto negli smartphone stessimo mettendo tutto di noi, incuranti (o sottovalutando) che quel tutto dal nostro gingillo tascabile potesse uscire per dannarci l’anima e la vita. I social stavano diffondendosi, lo smartphone era in fondo ancora quasi una novità. Il regista Paolo Genovese aveva costruito una macchina perfetta sia dal punto di vista delle tematiche sia della sceneggiatura (le giuste battute ma anche le giuste miserie ed ipocrisie individuali) affidandola a un cast composto da interpreti noti e strepitosi (Mastandrea, Giallini, Smutniak, Leo, Rohrwacher, Foglietta, Battiston). “Perfetti sconosciuti” non era stato un caso e uno strepitoso successo al box office (16 milioni di euro), ma ne erano anche stati acquisiti i diritti di remake in 25 Paesi nel mondo: anche questo un record planetario.
La storia è molto semplice e molto normale: alcuni amici di vecchissima data si ritrovano a cena in una serata di eclisse e di luna piena, solite chiacchiere, solito cazzeggio. Finché a qualcuno non viene la malsana idea di fare un gioco: lasciare in bella mostra i rispettivi telefonini rendendo pubblico quanto vi arriva come messaggi o chiamate. Ne sortirà un effetto esplosivo: ognuno ha un suo segreto (che verrà ovviamente rivelato), nessuno riconosce più nessuno, tutti - appunto – perfetti sconosciuti gli uni agli altri. E il cellulare moderno vaso di Pandora delle nostre ipocrisie e bugie: guai ad aprirlo, perché «siamo tutti frangibili», meglio non sapere, come dirà in dirittura finale uno dei protagonisti.
A chiusura del cerchio, circa un anno fa, lo stesso Paolo Genovese aveva ripreso in mano il suo gioiello, lo aveva riscritto (poco) e diretto, adattandolo alla scena teatrale. A Milano “Perfetti sconosciuti” è arrivato questa settimana al Teatro Manzoni, ed è ogni sera sold out: risate tante e applausi a scena aperta. Gli spettatori rapiti dal gioco al massacro dei sette interpreti, come se ogni situazione o battuta arrivasse inattesa e nuova. Che abbiano visto o meno il film, non importa: trovano ciò che cercavano, il ritratto abbastanza fedele di sé stessi, ognuno con un personaggio in cui riconoscersi almeno un poco.
In scena va esattamente quello che c’era nel film, ripulito di un paio di ruoli minori divenuti voci che interloquiscono via cellulare, e con un finto fuori scena, in trasparenza, in cui fare accadere quelle poche situazioni che non si svolgono nell’ambientazione principale, il soggiorno con cucina, in cui tutto avviene. Anche il cambio degli interpreti - bravi, ma comunque con personalità molto diverse dai loro omologhi cinematografici - è assolutamente funzionale, non sono puri replicanti, ma ciascuno integra a modo suo il personaggio che gli è stato affidato, rendendolo diverso, in generale più sfumato e meno aggressivo: Paolo Calabresi, il chirurgo e padrone di casa, è l’unico a suo modo consapevole (era interpretato da Marco Giallini), Astrid Meloni la moglie psicologa (Kasja Smutniak), Dino Abbrescia l’amico Lele (Valerio Mastandrea) coniugato con Anna Ferzetti/Carlotta (Anna Foglietta) su cui pesa il non detto di un tragico evento passato, Alice Bertini la giovane Bianca (Alice Rorhwacher) sposata con Marco Bonini, il fedifrago seriale e omofobico Cosimo (Edoardo Leo), il quasi single Emmanuele Aita/Peppe (Giuseppe Battiston).
La macchina insomma continua a funzionare, attuale oggi come quando fu scritta, capace di mescolare sapientemente battute acchiappa-risate e piccoli drammi quotidiani: il cellulare continuiamo a portarlo in tasca e come allora continuiamo ad avere scarsa consapevolezza di quanto sia esplosivo ciò che gli affidiamo, troppo pieno dei nostri segreti, oggi ancora di più numerosi di quanto non fosse 8 anni fa.
“Perfetti sconosciuti”, Teatro Manzoni, via Manzoni 42, fino al 24 marzo, 26.50/41 euro, teatromanzoni.it