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“Qualcuno mi seguiva e per paura ho ucciso Olga, Rudina e Natalia”

9 mesi fa 6
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Quella sera di mezza estate, i medici Aurelio Bonelli e Francesco Sonati erano tranquilli a seguire le loro faccende di routine quando ricevettero una telefonata dall’Istituto di medicina legale di Firenze. La polizia giudiziaria chiedeva l’immediato intervento di un dottore perché era stato trovato un cadavere abbandonato, in mezzo alle campagne fuori Prato.

Le strade sterrate formavano quadrati, rettangoli irregolari tra vigneti, campi di girasoli e distese incolte. Bonelli e Sonati raggiunsero così via del Gorello, alla periferia della città toscana, che nemmeno erano le 21 del 20 luglio 2000. L’area era stata già isolata dagli agenti della polizia per aiutare i colleghi della scientifica a isolare e campionare ogni elemento ritenuto interessante. Lungo il margine sinistro della strada, spuntano all’improvviso i capelli biondi a caschetto e il volto insanguinato della vittima. Il cadavere non è anticipato da tracce di colluttazione o macchie di sangue e quindi è stato trasportato fin lì e scaricato. Gli occhi e la bocca spalancati appartengono a una donna, il corpo riverso sulla schiena. L’abbigliamento fa ipotizzare un rapporto sessuale: maglia nera a rete dalle lunghe maniche, sottoveste rimboccata fino al torace, pube e inguine con tracce di sangue, lo slip, infilato solo per la gamba sinistra risulta abbassato a metà coscia, mentre ai piedi restano indossati un paio di sandali dal tacco alto. Le ferite e i lividi, alle mani, sugli zigomi, raccontano come la vittima si sia difesa finché ha potuto, cercando di parare i colpi. Si chiama Natalia Topala, moldava, è una prostituta a soli 22 anni. Per Bonelli e Sonati, l’assassino ha agito da poco, uccidendola con una lama appuntita da almeno 13 centimetri, tagliente da un lato, al massimo la sera prima. Diversi fendenti mortali sotto il seno sinistro le hanno perforato polmoni e cuore, determinando un arresto cardiaco-respiratorio. L’assassino ha agito con particolare brutalità, estraendo l’arma solo per una parte per poi affondarla altre quattro volte, in profondità e con inclinazioni diverse. Le indagini sono difficili. Ricostruire identità, movimenti e abitudini di Natalia vuol dire trovare dei testimoni in un mondo dove nessuno ha voglia di guai.

Passano quasi due settimane quando a Calenzano, all’alba del 2 agosto, una gazzella dei carabinieri in via Matteotti incrocia una donna riversa sull’asfalto. I militari scendono, si avvicinano. La giovane è scalza, insanguinata ma ancora respira. Caricata su un’ambulanza per raggiungere l’ospedale di Careggi, i carabinieri scoprono che anche l’albanese Rudina Xhelo che ora lotta tra la vita e la morte per uno shock emorragico, è una prostituta, coetanea di Natalia, colpita al torace e all’addome. Anche Rudina si è difesa, cercando di fermare i fendenti a mani nude, come ricostruiscono i medici legali, ipotizzando una prima aggressione in auto con pugni, schiaffi, quindi le coltellate sia nell’abitacolo sia per strada dove Rudina era riuscita a sfuggire per poi essere raggiunta e ferita con altri quattro colpi. La ragazza muore.

Le analogie tra i due delitti sono troppe per non far collegare i due omicidi: tipologia della vittima, orario dell’aggressione, zona dove l’assassino agisce – tra Firenze e Prato – arma da taglio usata e tipo di fendenti visto che chi colpisce non estrae completamente la lama. Gli investigatori vogliono anche capire se sta agendo il killer di qualche organizzazione che controlla la prostituzione o se a uccidere è la mano di un assassino seriale. Per un paio di mesi le indagini non portano a nulla di significativo. Poi il cadavere della moldava Olga Fruntze viene ritrovato alle porte di Pistoia, nei vivai di Chiazzano. Uccisa anche lei a coltellate con i colpi che le hanno trapassato cuore e polmoni. Nel buio delle indagini un dettaglio fa sperare: il telefonino della vittima è scomparso e poco dopo si riaccende, rendendo così rintracciabile tramite l’Imei, il codice assegnato a ogni apparecchio. Individuato, l’ignaro utilizzatore spiega agli inquirenti di aver acquistato il cellulare da una persona in un bar, la polizia ricostruisce tutti i passaggi fino a Maurizio Spinelli, 35 anni, ex cuoco, autotrasportatore di pesce, senza precedenti penali. È il serial killer. Confessa, collabora con gli inquirenti: «Quel giorno – racconta – mi sentivo come se fossi sempre seguito da persone, osservato… non ero tranquillo». Gli inquirenti cercano un movente e il serial killer spiega che odia tutti gli extracomunitari dell’est Europa, dopo le minacce subite a maggio da parte di un gruppo di slavi, che lo hanno costretto a sborsare 5 milioni di lire. Prove non ce ne sono ma Spinelli si sente perseguitato.

A sostegno della confessione intervengono le prove della scientifica, il sangue di Olga sui sedili e sui tappetini della vecchia Panda di Spinelli. Nell’auto vengono anche ritrovati un paio di orecchini identici a quelli appartenuti ad Olga, un coltello compatibile con l’arma del delitto e alcuni capelli della parrucca che Olga indossava la notte in cui è stata uccisa. In particolare, una goccia di sangue raccoglie il Dna di Olga insieme a quello di Rudina, una delle altre vittime mentre il liquido seminale del sospettato viene prelevato da un preservativo recuperato vicino alla scena del primo delitto. A processo, i medici ritengono che Spinelli sia folle, afflitto da un delirio di persecuzione: ritiene che gli extracomunitari possano tornare a minacciarlo. Sono solo fantasmi che aleggiano nella sua mente.

Bocciato due volte alle medie, inizia a lavorare a 14 anni come manovale, carpentiere, cuoco, camionista. Alla stessa età, il primo rapporto sessuale con una prostituta quindi una vita priva di relazioni durature. «Sono pacioccone, un bambinone… – si descrive agli psichiatri – molto dolce, molto di cuore». Ancora giovane perde un fratello più grande al quale era legatissimo, per poi sentire voci nelle orecchie. Colpito da infarto a 31 anni, vede morire in pochi mesi il cognato e la madre mentre il padre affetto da Alzheimer vive in una bolla. I fantasmi, invece, inseguono Spinelli: «Ero tranquillo, ma quando arrivai al parcheggio della stazione vidi del movimento, ombre, mi spaventai. Lei cominciò a urlare, allora presi il coltello, tirai la coltellata. La terza volta ero sempre col pensiero di queste persone, vidi del movimento di macchine, coi fari che si accendevano e si spegnevano come dei segnali. Lei provò a prendere il telefonino, mi prese il panico e le detti una coltellata. Non avevo paura della polizia, ma di queste persone». Spinelli condannato a 23 anni di carcere, verrà giudicato seminfermo di mente anche se Massimo Picozzi, psichiatra consulente del pubblico ministero lo ritiene sano. Spinelli uccide, per il perito, spinto da una «percezione terrorizzante di minaccia, perché non poteva tollerare la possibilità che dentro di lui prendessero il sopravvento aspetti scissi di natura sadica, perversa o frutto di un panico che fa perdere il controllo. Sarebbero state cose che avrebbero mostrato una frattura del suo rapporto con la realtà, del suo senso d’identità».

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