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“Quanta vergogna per quelle chat razziste, la filosofia e il lavoro mi hanno salvato”

6 mesi fa 12
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TORINO. Tra dieci giorni compie ventun anni. Ha un libro di algebra in mano. Alle quattro di pomeriggio l’esame. Cammina lento nel corridoio del Politecnico. Vuole diventare ingegnere meccanico e parla come un filosofo.

«Quella chat era una bolla. Io dentro. Il mondo reale fuori. Vivevo nella bolla fino a quando non è arrivato lo schiaffo. O la botta, la chiamo anche così. La perquisizione, l’inchiesta. Ciò che mi ha fatto capire che facevo cose orribili. Sono andato in crisi. Mi sono chiesto se ero cattivo. Sono stato costretto a ragionare. A salvarmi sono stati i libri. Con Kafka e Dostoevskij ho metabolizzato i concetti di odio e ipocrisia. Con Kant e Hegel ho capito che la morale è ovunque. Fuori dallo schermo. Ma anche dentro. Solo che prima non lo sapevo».

Marco è uno dei 19 ragazzi in Italia che cinque anni fa hanno creato la chat degli orrori. “The shoah party”. Un variegato di esaltazione del nazismo e di odio declinato nelle più svariate forme, dal razzismo alla violenza sulle donne. Avevano 14, 15 anni. Volevano fondare un gruppo di black humour su WhatsApp. «Poi la situazione ci è sfuggita di mano», spiega Marco quando mancano due ore all’ultimo esame della sessione estiva.

Due giorni fa il tribunale dei minorenni di Firenze, che ha concesso il perdono giudiziale a tutti gli imputati, ha precisato come questa fosse la «soluzione più corretta». Sono passati cinque anni dai fatti da giudicare alla prima udienza. Nessun intervento rieducativo avrebbe più senso. E per gli indagati sopportare questa attesa infinita è stato «un percorso arduo». Come una pena.

Oggi sono dei ragazzi diversi. Marco ha finito il liceo, ha passato il test di medicina. Alla fine ha scelto ingegneria. «Così avrò più opportunità di lavoro», dice. «Mi sono pagato gli studi. Lavoro in un ristorante da cinque anni, da quando è successa la vicenda. Tre turni a settimana. Prima ero lavapiatti. Oggi sono cuoco. Avevo, ho l’idea, che il lavoro mi permetta di espiare le mie colpe. Le mie idiozie».

L’impegno come mezzo di redenzione. E anche, come aveva spiegato in udienza il difensore di Marco, l’avvocato Stefano Tizzani, come mezzo per ripagare i genitori delle spese, anche legali. E delle sofferenze. «È stato un duro colpo per tutta la famiglia – afferma il legale – c’è stata una perquisizione all’alba davanti a due fratellini. La corsa a Firenze per l’interrogatorio. La presa di coscienza è venuta dopo. Oggi sono ragazzi maturati. Hanno fatto un percorso psicologico. Sono altri da prima».

Il lavoro ha salvato Marco anche dall’eterna attesa. «Fissavano l’udienza e l’angoscia mi devastava per giorni. Poi l’udienza saltava. E l’ansia cresceva ancora di più. Sono stati cinque anni così. Per non pensare studiavo di giorno e lavavo i piatti la sera. Bevevo Red bull e caffè per restare in piedi».

La svolta, nella crisi, è arrivata con la filosofia. «Volevo capire cosa c’era dietro l’ipocrisia della vita virtuale. Mi sentivo contraddittorio. Cercavo una spiegazione su cosa c’era di sbagliato e cosa di giusto in me. Mi ha aiutato Kant. La legge morale dentro di me. Ho capito che l’etica è nella vita. E che il bene e il male sono anche dentro a quelle chat».

Marco è convinto che il virtuale abbia un potere anestetizzante. «Sulla chat arrivavano video estremi e volgari. Eravamo piccoli e ci provavamo gusto. Ci piaceva la trasgressione. Ci sembrava tutto fittizio perché c’era lo schermo. Quello è il problema. Più il video è strano, più l’effetto alienazione è forte. E se tutto ti sembra finto, non percepisci il peso di ciò che stai guardando».

Nella chat da brividi c’erano studenti benestanti. Adolescenti ordinari. Davanti a svastiche e foto di torture. Storditi dal vortice come molti ragazzini delle generazioni successive alla sua.

«A loro vorrei dire di stare attenti al distacco. Io sapevo che non avrei dovuto guardare quei video. Ma non sapevo perché non dovevo farlo. Non ci rendevamo conto di niente. A un certo punto nella chat sono entrati gli adulti. Ci è sfuggito tutto di mano. Arrivavano video pedopornografici o nazisti, disgustosi. Era una spirale che peggiorava e andava avanti da sola. Io non scrivevo più. Non leggevo più. Un giorno all’alba sono arrivati i carabinieri». Era il 2019. Sembra un secolo fa.

«Ai ragazzini di oggi vorrei dire che senza un limite la spirale ti divora. Il limite per me è il tempo. Non sto online più di mezz’ora al giorno. Se no perdo la giornata. A loro vorrei anche dire di studiare la morale, per orientarsi nel mondo virtuale. Bisogna farsi delle domande sui video che si guardano. Se si ha un dubbio, parlarne subito con un genitore».

Marco parla con la pacatezza di un adulto. E’ l’ora dell’esame. Prima di congedarsi dice: «Passata algebra torno al ristorante. Con le Red bull e i caffè per stare in piedi. Voglio lavorare tutta l’estate».

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