Nello stesso giorno in cui una tregua pare raggiunta nella tragica guerra di Gaza, dal governo italiano esce la notizia ch’esso non darebbe esecuzione all’ordine della Corte internazionale di giustizia di arresto di Netanyahu ove il capo del governo israeliano dovesse venire in Italia. La circostanza spinge a riflettere sul ruolo della Corte, sulle intenzioni e speranze che ne hanno accompagnato l’istituzione e sulla sua crisi. Una crisi che ha un carattere del tutto particolare nel quadro generale di quella che investe il diritto internazionale e le Corti incaricate di assicurarne l’osservanza.
Nel preambolo dello Statuto della Corte penale, adottato a Roma nel 1998 e ratificato dall’Italia l’anno successivo, si legge che si è valuto porre termine all’impunità degli autori dei più gravi crimini, contribuendo in tal modo, «nell’interesse delle generazioni presenti e future», alla prevenzione di nuovi crimini contro l’umanità, crimini di guerra, genocidi e aggressioni internazionali. Il trattato istitutivo della Corte stabilisce all’articolo 27 che esso «si applica a tutti in modo uguale senza qualsivoglia distinzione basata sulla qualifica ufficiale. In particolare, la qualifica ufficiale di capo di Stato o di governo, di membro di un governo o di un parlamento, di rappresentante eletto o di agente di uno Stato non esenta in alcun caso una persona dalla sua responsabilità penale per quanto concerne il presente Statuto e non costituisce di per sé motivo di riduzione della pena». E «le immunità o le regole di procedura speciali eventualmente inerenti alla qualifica ufficiale di una persona in forza del diritto interno o del diritto internazionale non impediscono alla Corte di esercitare la propria giurisdizione nei confronti di tale persona». Il senso proprio delle parole, la logica dello Statuto e l’intenzione dei suoi autori sembra non lasciare spazio a dubbi: per i crimini per i quali è stata istituita la Corte penale internazionale non vale alcuna immunità, nemmeno quelle assicurate ai capi di Stato, capi di governo e ministri degli Esteri da una consuetudine generale del diritto internazionale. Essa cede rispetto alla disposizione specifica dello Statuto della Corte penale internazionale: nell’interpretazione del diritto la norma specifica prevale su quella generale. Qui la specificità della disposizione dello Statuto della Corte deriva sia per i casi considerati (quei crimini), sia per la autorità che procede (la Corte internazionale). Infatti nella prassi abbiamo visto, senza troppo dibattito pubblico, l’arresto o, in sua mancanza, la latitanza di capi di Stato (africani) perseguiti dalla Corte.
La Corte penale internazionale ha recentemente emesso ordini di arresto contro Putin, presidente russo, Netanyahu capo del governo e Gallant ministro della difesa d’Israele (oltre ad alcuni capi di Hamas). Diversi sono i fatti loro contestati, ma tutti costitutivi dei crimini per cui è competente Corte penale internazionale. Israele e la Russia non hanno ratificato lo Statuto della Corte, ma i fatti sono stati commessi in territori in cui esso si applica. Le reazioni sono state virulente e così le accuse alla Corte. Sull’onda del caso Netanyahu il Congresso degli Stati Uniti ha in corso di approvazione una legge («Illegitimate Court Counteraction Act») per punire tutti coloro che collaborano con la Corte penale internazionale nell’indagare la condotta di americani o di cittadini di Paesi alleati. Si tratta di un’iniziativa in linea con la politica di contrasto alla Corte da sempre attuata dai governi degli Stati Uniti. Da parte sua la Russia ha addirittura emesso ordini di arresto dei giudici della Corte che hanno ordinato l’arresto di Putin. E, più o meno esplicitamente, molti Stati, anche membri del sistema della Corte penale interazionale, hanno fatto sapere che non eseguiranno gli ordini di arresto emessi dalla Corte.
È chiaro che in tal modo la Corte internazionale è resa inoperante o – peggio – è destinata ai piccoli impotenti ed impedita quando si tratta dei potenti. Tutto ciò dà ragione a chi se ne rammarica e protesta. Ma tra chi invece dubita e si interroga vi è anche chi è ben lontano dall’accettazione o addirittura dalla connivenza con la politica di governanti che commettono crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidi o invadono il territorio di altri Stati. L’alternativa – l’incompatibilità e reciproca concorrenza – tra lo strumento della repressione criminale internazionale e quelli tipici della diplomazia ha sempre accompagnato la discussione sulla scelta dei metodi cui ricorrere. Vi sono domande cui è necessario dar risposta. Quale è in concreto il rapporto tra pace e giustizia? È stato efficacemente chiesto: non può esserci pace senza giustizia, ma può esserci giustizia senza pace? Che cosa ha influito sul raggiungimento della sospensione delle ostilità a Gaza? La composizione almeno temporanea degli interessi degli attori politici e militari o l’ordine di arresto emesso dalla Corte penale internazionale? Gli automatismi della giustizia penale, oppure la duttilità dei rapporti tra le parti in causa, con le pressioni, le attese, le offerte pubbliche e quelle segrete, le minacce? Il diffuso rifiuto di considerare la Corte obbliga a riprendere la discussione, se non sull’esistenza della Corte, almeno sulle regole stabilite per il suo funzionamento.