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TAORMINA. Far convivere tante anime diverse. Uno, nessuno e centomila. Autore, attore, presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia, padre di un acclamato regista, Pietro, prelato ferino in Conclave di Edward Berger (in uscita a dicembre) e adesso, al Taormina Film Festival, ex-giovane interprete incantato dalla grazia del maestro della Nouvelle Vague Jacques Rivette. Sergio Castellitto realizza il sogno dei mille ruoli conciliando il tutto con un pizzico di autoironia: «Ho sempre detto, per scherzo ma nemmeno tanto, che io non faccio l’attore, ma il protagonista. Che è un mestiere diverso». Al festival è stata proposta la versione integrale di Chi lo sa?, girato da Rivette nel 2001, in cui Castellitto è Ugo, regista impegnato a mettere in scena una versione di Come tu mi vuoi di Pirandello: «Non mi sono mai considerato un autore – ridacchia sulla terrazza con vista sull’Etna in fiamme – e, a dir la verità, non sono mai stato riconosciuto come tale. Non è che mi sono arreso, ma ho imparato a essere contento di essere un attore, ogni tanto prestato alla regia».
È appena entrato a far parte della giuria degli Academy Awards. Che ne dice?
«Oddio, per un attimo ho pensato che mi stesse per chiedere dell’esclusione dell’Italia dagli europei… Sa cosa penso? Che il calcio in Italia è l’unica cosa che va peggio del cinema».
Tornando agli Oscar?
«Mi ha fatto piacere, più che altro ha fatto piacere ai miei figli. Hanno detto “finalmente possiamo andare sulla piattaforma e vedere i film. Papà, dacci la password”. Comunque non voglio sembrare altero, non lo sono, ma mi è sembrato un bel riconoscimento del mio percorso di lavoro».
Se guarda indietro, al Castellitto diretto da Rivette, cosa ricorda di più?
«La cosa strana è proprio che, di quel film, ci sono scene che non ricordo nemmeno di aver interpretato. E dire che, in genere, ho memoria di tutto. Di ogni film che ho fatto ricordo la temperatura che c’era sul set, quello che avevo mangiato, cos’era successo con il macchinista. Il regalo di Chi lo sa? è proprio il rimosso, ovvero la quintessenza del cinema».
Il film è ambientato su un set. Per lei cos’è il set?
«È una placenta, una parentesi che si apre e si chiude, un luogo della fantasia e dell’immaginazione. Ricordo sempre un episodio di tanti anni fa. Avevo un fortissimo mal di denti, veramente terribile. Mi deve credere, quando il regista diceva “azione” mi passava tutto, tornava appena sentivo lo stop. Non fidatevi mai degli attori che si lamentano».
Il testo cui si ispira Rivette è Come tu mi vuoi. Che rapporto ha con Pirandello?
«È un pallino della mia vita, lo snodo cruciale tra il teatro ottocentesco e quello della psicanalisi. È un autore di impressionante modernità. La storia di Come tu mi vuoi si ispira alla vicenda dello smemorato di Collegno, su cui anche Marco Bellocchio si era fissato. Una volta mi aveva parlato del suo desiderio di farne un film».
Con Bellocchio ha lavorato varie volte. Su che cosa si basa la vostra intesa?
«Tra noi c’è una vera fratellanza. Tutto è cominciato quando ho doppiato Lou Castel ne Gli occhi, la bocca. Castel era arrabbiatissimo, mi aggredì, non sopportava l’idea che un altro parlasse al suo posto, ripeteva “ho diritto alla mia voce e al mio volto”. Non capiva che non era possibile per problemi di accento. Poi Bellocchio mi ha diretto ne L’ora di religione, che sicuramente rappresenta uno dei miei passaggi cruciali, di crescita e di coscienza».
È reduce dalla “Diaspora degli artisti in guerra”, l’evento del Csc che dà voce ai registi provenienti dalle zone di conflitto. Com’è andata ?
«Una grande soddisfazione. La scommessa era realizzare un evento contemporaneo alla tragedia. Non erano tre giorni di film sul western o sulla commedia all’italiana, abbiamo invitato autori libanesi, ucraini, palestinesi, David Grossman, Monsignor Ravasi. Fino all’ultimo non sapevamo cosa sarebbe accaduto. Un tempo si diceva “offriamo un pasto caldo”, noi abbiamo detto “offriamo un microfono e uno schermo dove proiettare i vostri film”. Ne ho ricavato la consapevolezza che al Centro, ferma restando la montagna della burocrazia, si possono fare cose che accendono d’entusiasmo le persone».
E’ vero che da quei giorni nascerà un film collettivo, realizzato dagli studenti?
«Sì, ho detto subito ai ragazzi che non ci sarà scritto “regia di” ma solo “Csc presenta”, poi seguirà una lunga lista dei nomi che hanno partecipato».
Cos’hanno di diverso i giovani di oggi rispetto a quelli della Nouvelle Vague ?
«Quella è una generazione di autori diventati maestri da giovanissimi, non hanno dovuto aspettare i 70 anni per essere considerati tali. Godard e Truffaut sono stati maestri a 30 anni. Oggi è impensabile».
Con Rivette ha recitato anche in Questione di punti di vista, ambientato in un circo.
«Dovevo essere un clown, avrei potuto farlo in modo classico, usando il bianco, le sopracciglia forti, il rossetto. Chiesi a Jacques se preferiva che recitassi con la mia faccia. Mi disse solo una cosa: “truccati a metà”. Era la soluzione a cui avevo pensato anch’io».